Allevare il Tacchino

Federico Lavanche
Federico Lavanche 18 Min Read

Cennti storici

tacchinoIl primo a parlare del tacchino, nel 1525, fu lo spagnolo Gonzalèz Fernando de Oviedo, governatore di Hispaniola, nel suo “Summario de la Historia Natural de las Indias Occidentales”: lo descrive qui come una varietà del Pavone, con una coda meno grande del Pavone comune e con una carne ancora più saporita.
Proveniente dal Messico, fu introdotto in Spagna intorno al 1520; da qui raggiunse la Francia – dove fu chiamato Pollo d’India (Coq d’Inde, da cui deriva l’attuale Dindon e Dinde) – e poi, in seguito, in tutto il Continente, divenendo sempre più comune.
In Inghilterra comparve per la prima volta sotto il regno di Enrico VIII nel 1524; gli storici di quel tempo, credendo che provenisse dai possedimenti turchi dell’Asia Minore, lo chiamarono Gallo Turco (Turkey-cocks) e, per abbreviazione, Turkey, mantenuto fino ad oggi.
Fernandez, nel suo “Tesoro di cose nella Nuova Spagna” del 1576, già distingue il tacchino domestico da quello selvatico, ed aggiunge che gli spagnoli ed i portoghesi lo chiamavano “Pavones de las Indias”.
Già intorno al 1565, in Francia, in un convento vicino a Bourges i monaci avevano impiantato un allevamento, con soggetti direttamente importati dall’America: si dice anche che il primo tacchino servito a tavola fosse quello delle nozze di Carlo XI con Elisabetta d’Austria il 20 novembre 1570.
La prima descrizione scientifica del tacchino è dovuta al naturalista viaggiatore francese Pierre Gilles, edita a Lione nel 1553; a lui seguirono Pierre Belon, sempre francese, che fornì nella sua “Histoire Naturelles des Oiseaux” (Lione, 1555) il primo disegno del tacchino; indi Gesner da Zurigo ed il nostro grande Ulisse Aldrovandi.

I Tacchini che noi oggi conosciamo derivano tutti dai tacchini selvatici del genere “Meleagris”. Si contano sette sottospecie con caratteristiche più o meno simili che vivevano in un’area molto vasta, dal Canada al Messico.
Ecco cosa diceva Brehm del tacchino selvatico nel suo lavoro “La Vita Degli Animali” (Torino, 1869):

«Il tacchino vive allo stato selvatico anche al giorno d’oggi, è di una grande bellezza e prolifico assai. Era sparso nei piani dell’America del Nord, particolarmente nell’Arkansas, nell’Illinois, l’Alabama, l’Ohio, Kentucky, l’Indiana, il Missouri e il MissisSipi. I grandi branchi condotti da vecchi maschi i quali sono di una meravigliosa vigilanza che temono del continuo l’insidia, che non cercano il cibo se non quando si vedono rimpiazzati da altri vecchi di ugual tempra. Fanno lunghissimi giri di strada a piedi e possono in un giorno fare tanto cammino quanto ne può fare un robusto cane; in caso di bisogno fanno anche forti voli per oltrepassare corsi di acque. Si nutrono di semi, frutti di alberi, ghiande, bacche, insetti, verdure ed ogni sorta di tuberi che trovano. Sono ghiotti specialmente di lumache e di insalate tenere, e sovente fanno indigestioni pel troppo mangiare. Certi scrittori a torto prendono questo animale come prototipo della collera stupida ed inconscia; ma molti altri lo difendono, ed alcuni americani, come Beniamino Franklin, ebbero a proporre agli Stati Uniti che si mettesse nello stemma nazionale l’emblema del Tacchino in luogo della superba e antisociale aquila; mentre il tacchino è di origine essenzialmente americana”.»

Riporto anche integralmente quello che il grande naturalista G. Buffon (1707 – 1788) scriveva, sia per la sua importanza storica che per la sua pittoresca e scrupolosa descrizione:

tacchino«E’ rimarchevole per la grandezza della sua statura come per certe naturali inclinazioni che non gli sono comuni con un piccol numero di altre specie. La sua testa che è molto piccola a proporzione del corpo, è quasi interamente spogliata di piume e solamente coperta, del pari che una parte del collo, di una pelle turchina carica di capezzoli rossi nella parte anteriore del collo e di capezzoli biancastri sulla parte posteriore della testa con alcuni piccioli peli neri sparsi raramente tra i capezzoli e con piume più rare all’alto del collo. Dalla base del collo gli scende sul collo fino ad un terzo circa della sua lunghezza una specie di barba carnosa rossa ondeggiante, composta di una doppia membrana. Sulla base del becco superiore gli si innalza una caruncola carnosa di figura conica e solcata di grinze traversali assai profonde: questa allo stato naturale ha poco più di un pollice, cioè quando il gallo d’India passeggia tranquillamente senza oggetti intorno a lui che lo tormentino; ma se qualche straniero oggetto gli si presenta inaspettatamente, massimo nella stagione degli amori, lascia questo uccello il suo portamento semplice ed umile, si ingalluzza immediatamente con fierezza, la sua testa e il suo collo si gonfiano, la caruncola si spiega, s’allunga e discende due o tre pollici più basso coprendosi il becco interamente; tutte le dette parti carnose si colorano di rosso vivo, nel tempo stesso le piume del collo e del dorso si arruffano, e la coda si alza a guisa di ventaglio, mentre le ali spiegandosi si abbassano fino a trascinarsi a terra.
In tale attitudine or va camminando fieramente intorno alle sue femmine, accompagnando la sua azione con un sordo rumore, prodotta dall’aria del petto che esce pel becco, e che è seguito da un lungo sussurro; ora abbandona la sua femmina come per minacciare quelli che lo turbano; e in tal caso la sua andatura è grave, e soltanto si accelera nel momento in cui fa sentire il rumore suddetto; di tempo in tempo egli interrompe siffatto esercizio per gettare un altro grido più forte, e che gli si può, tante volte, far ripetere quanto si vuole o fischiando o facendogli sentire qualsiasi altro tono acuto; egli ricomincia in seguito a far la ruota, la quale esprima ora il suo amore per la femmina, ed ora la sua collera contro quel che non conosce. Ventotto penne si contano in ciascuna delle ali, e diciotto nella coda; egli ha peraltro due code, l’una superiore e l’altra inferiore, la prima formata come sopra di penne grandi piantate intorno al groppone, è quella che l’animale rialza facendo la ruota, la seconda poi consiste in altre penne men grandi e non l’alza dalla sua situazione orizzontale.
Due attributi sensibili distinguono il maschio dalla femmina; un mazzetto cioè di crini duri e neri, lungo da 5 a 6 pollici, che gli esce quando è adulto dalla parte inferiore del collo, e l’altro che è uno sperone cha ha a ciascun piede, che è più o meno lungo, ma più corto e spuntato che quel del gallo ordinario. La gallina d’India è diversa dal maschio non solo per gli attributi suddetti, per la caruncola del becco superiore più corta ed incapace di allungarsi e pel rosso più pallido della barba carnosa e della barba glandulosa che le copre la testa, ma eziandio per gli attributi propri del sesso, essendo più piccola, avendo una fisionomia meno caratteristica, con men di forza nell’interno, e men d’azione all’esterno: di più il suo grido non è che un accento lamentevole, i suoi movimenti non sono che per cercare il nutrimento o per fuggire il pericolo; finalmente è priva della facoltà di far la ruota, non già perché non abbia la coda doppia, ma perché manca dei muscoli atti a levare e raddrizzare le penne più grandi (in questo devo purtroppo smentire il Buffon in quanto, come abbiamo detto, anche la femmina saltuariamente fa la ruota, ndr).
Un maschio può avere cinque o sei femmina, ove sianvi più maschi, si fanno fra loro la guerra battendosi, non però col furore dei galli ordinari. La femmina non è così feconda coma la gallina ordinaria, non fa essa le uova che una volta all’anno per quindici giorni circa, il suo accoppiamento col maschio non è così breve come quello del gallo, appena ha terminato di far l’uovo che si mette tosto a covare; cova pure le uova di ogni sorta di uccello, basta che abbia il nido in luogo asciutto e nascosto, vi si abbandona ella a questa occupazione con tanto ardore ed assiduità che morrebbe di inazione sulle sue uova se non si avesse la cura di levarla una volta al giorno per darle da bere e da mangiare.
Quando il maschio vede a covare la sua femmina cerca di rompervi le uova, riguardandole forse come un ostacolo ai suoi piaceri, il perché essa si nasconde allora con tanta cura. Finito il tempo in cui debbono schiudersi tali uova, i pulcino battono col becco il guscio dell’uovo che li chiude; talvolta ancora per essere il guscio troppo duro, vengono aiutati a romperlo, il che si fa con molta circospezione. Appena schiusi dal guscio, hanno questi pulcini la testa coperta di una specie di lanugine, e non hanno ancora né carne glandulosa, né barba carnosa, parti che si sviluppano in capo a sei settimane o due mesi. La madre li guida con la stessa sollecitudine onde la gallina conduce i suoi; essa li riscalda sotto le proprie ali col medesimo affetto e li difende collo stesso coraggio. Quando questi sono divenuti forti, lasciano la loro madre, o piuttosto ne sono abbandonati, amano andare a pollaio in aria libera, e passano così le notti più fredde dell’inverno or sostenendosi sopra un sol piede, ritirando l’altro nelle piume del loro ventre come per riscaldarlo, ora al contrario annicchiandosi in equilibrio sul lor bastone, per dormire, mettendosi la lor testa sotto l’ala, e durante il loro sonno hanno il moto della respirazione sensibile e notabilissimo. Essi hanno diversi toni e differenti inflessioni di voce secondo l’età e il sesso e secondo le passioni che vogliono esprimere. La loro andatura è lenta e il loro volo pesante, bevono, mangiano ed inghiottiscono dei piccoli sassolini digerendo presso a poco come i galli. Se credesi ai viaggiatori, sono essi originari dell’America e delle isole adiacenti e prima della scoperta di quel nuovo continente essi pure non esistevano nell’antico.
I galli d’India selvaggi non sono differenti dai domestici se non perché sono molto più grossi e più neri, del resto essi hanno gli stessi costumi, le stesse naturali inclinazioni, e la medesima stupidità; vanno a pollaio nei boschi sui rami secchi e quando se ne fa cadere qualcuno a colpi di fucile, gli altri se ne restano al lor sito, e non ne vola via neppure uno.
Ha questi la carne più dura, e se ne allevano facilmente dovunque trovansi nei parchi e nei boschetti.»

Oggi il Tacchino allo stato selvatico, a causa della caccia di cui è stato oggetto, è diventato molto più raro, anche se si sono tentate reintroduzioni, alcune delle quali andate a buon fine.
I Meleagridi sono i più grandi galliformi oggi esistenti.

Molteplici sono le denominazioni volgari con cui esso è stato ed è chiamato; eccone alcune, tratte da una lista ben più lunga riportata nel libro di Savorelli:
– Piemonte: Pitu/Pita, ma anche Biru e Bira come pure Dindi e Dinda o Bibin e Bibina.
– Veneto: Dindio/Dindia
– Brianza: Polin e Pola
– Crema: Pulù/Pola
– Ravenna: Tachèn e Tachena
– Toscana: Lucio o Tacco
– Arezzo: Billo/Billa
– Roma: Gallinaccio
– Cagliari: Dindu e Piocce
– Messina: Ciurro e Gaddu d’India

Allevamento

tacchinoocellatoNon è molto sviluppato in Italia; peccato, perché è un animale molto bello e per le nostre campagne lo trovo molto più indicato del Pavone.
Devo però riconoscere che solo chi ha grandi spazi può permettersi l’allevamento del tacchino, che necessita infatti di pascolare: un tacchino in un pollaio non è bello da vedere.

Anche se il tacchino domestico è meno battagliero del selvatico, è bene comunque non tenere più di un maschio nel periodo della riproduzione: si disturberebbero a vicenda e non dimostrerebbero alle femmine il dovuto riguardo.
Il gruppo riproduttore potrà essere formato da un giovane maschio e tre o quattro femmine di almeno due anni.
E’ la femmina che decide quando accoppiarsi: il maschio non deve fare altro che essere pronto, e lo dimostra facendo sempre la ruota.
E’ sufficiente un accoppiamento andato a buon fine perché tutte le uova che la femmina deporrà, prima di iniziare la cova, risultino fecondate.
L’inizio della deposizione è la primavera: molte femmine però iniziano anche nel mese di febbraio.
L’incubazione dura 28/30 giorni.

OLYMPUS DIGITAL CAMERALa tacchina è una covatrice e madre eccezionale che può portare a termine più covate in una sola stagione; per questa sua dedizione è sfruttata come “incubatrice” naturale: non è comunque bene approfittarne troppo, per lei è sempre uno stress; assicurarsi giornalmente che sia uscita dal nido e si sia rifocillata; anche un buon bagno di sabbia sarebbe l’ideale per dargli sollievo e disfarsi di un po’ di parassiti.
Spesso è restìa ad allontanarsi dal nido; con alcune, dopo averle messe fuori, dovevo chiudere la porta per garantire almeno 15 minuti d’aria.

Quando allevavo il Tacchino Crollwitz facevo fare alle mie femmine una sola covata; mi davano soggetti sufficienti, e devo dire che avere un gruppo di più di 20 tacchini non è una cosa semplice da gestire: orto devastato, vasi in continuo pericolo, tetti presi d’assalto con i conseguenti danni alle tegole, ecc.

E’ preferibile che sia la tacchina stessa a fare da madre perché, se allevati sotto lampade, può succedere che i tacchinotti abbiano difficoltà ad iniziare a nutrirsi.
Se poi la stagione è asciutta si possono far uscire prima, approfittando delle giornate di sole – necessario per lo sviluppo scheletrico – e per farli cominciare fin da piccoli a mangiare sassolini, erba e insetti, tanto utili al loro sviluppo.
Nei primi due/tre mesi comunque è bene somministrare una miscela con una dose proteica del 28% e con coccidiostatico per prevenire brutte epidemie.
A tre mesi effettuare due sverminazioni a distanza di 15 giorni l’una dall’altra.
Hanno bisogno di molta verdura, frutta e di tanto spazio a loro disposizione con tanto verde.
Personalmente non ho mai riscontrato la fatidica “crisi del rosso” o “crisi del corallo”: in queste condizioni i miei tacchini sono sempre cresciuti velocemente e in salute.

 

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Appassionato da sempre di animali di ogni genere, ho avuto la possibilità di allevarne molti, studiarli e apprezzarli. Non si finisce mai di imparare da loro.
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