Allevamento del maiale allo stato brado

maiale allevato all'apertoLa tecnica di allevamento all’aperto dei suini, nota all’estero con i termini outdoor e plein air, si differenzia dall’allevamento in porcilaia per l’impiego di ampie superfici di terreno recintate, all’interno delle quali i suini dispongono di zone funzionali predisposte e attrezzate per l’abbeverata, l’alimentazione e il riposo.
Normalmente si utilizzano recinzioni, strutture e attrezzature di tipo mobile per agevolarne il periodico trasferimento sui diversi appezzamenti destinati all’allevamento.
Caratteristica di questa forma d’allevamento, infatti, è la pratica di ruotare i recinti nell’ambito di un idoneo piano aziendale di avvicendamento colturale, finalizzato a massimizzare lo sfruttamento agronomico dei nutrienti contenuti nelle deiezioni rilasciate dai suini sul terreno e a minimizzare, al tempo stesso, i fenomeni di inquinamento delle acque superficiali e sotterranee, l’erosione del
suolo e i danni alla vegetazione.
Con questo sistema di allevamento è possibile limitare gli investimenti necessari per le porcilaie biologiche, purché vi sia la disponibilità di superfici idonee e a basso costo (terreni marginali o scarsamente produttivi).
Questa tecnica risulta di grande interesse per l’allevamento dei riproduttori, ma può essere estesa anche alle fasi di accrescimento e ingrasso.
Organizzazione dei recinti
La progettazione di un allevamento suinicolo all’aperto prevede innanzitutto la definizione delle superfici di terreno necessarie, con riferimento ai seguenti parametri:
• numero di recinti e relative destinazioni per fase di allevamento;
• numero e categorie di suini per ogni recinto;
• superficie per capo da destinare a ciascuna categoria di suini in relazione alla fase produttiva e alle caratteristiche climatiche e pedologiche, ottemperando alle norme in vigore in materia di impatto ambientale delle produzioni zootecniche.
All’intero dei singoli recinti i suini devono disporre di:
• un abbeveratoio;
• una buca riempita di acqua o uno spruzzatore da azionare in continuo in estate durante le ore più calde del giorno;
• una zona riparata dal sole, alberata o realizzata con reti ombreggianti sorrette da un’intelaiatura
infissa nel terreno;
• una zona di riposo riparata, costituita da strutture mobili (capannine), individuali o collettive, di vario tipo e dimensione, in relazione alla fase di allevamento alla quale vengono destinate.
Le attrezzature necessarie
La tecnica di allevamento all’aperto si basa essenzialmente sull’impiego di recinzioni elettrificate per delimitare le aree a  disposizione degli animali e di capannine mobili di varie forme e dimensioni, secondo la fase di allevamento in cui devono essere utilizzate.
Le recinzioni elettrificate permettono,con costi accettabili, di confinare gli animali in aree di dimensioni adeguate e organizzate in base alle diverse fasi di allevamento e alle specifiche esigenze gestionali dell’allevamento.
La recinzione è costituita, di norma, da due ordini di filo posti a 250 e a 500-550 mm di altezza dal piano di campagna, sorretti da picchetti della lunghezza di 1 m; ma nei recinti per scrofe in gestazione è sufficiente un unico ordine di filo installato a 400 mm d’altezza. Per i recinti destinati alla fase di maternità, invece, è possibile utilizzare tre ordini di filo, installati alle altezze di 150 mm,
300 mm e 500 mm, che meglio si adattano alla diversa taglia della scrofa e dei suinetti.
Sulla recinzione è consigliabile la predisposizione di una banda in plastica forata di colore verde, del tipo usato nei cantieri edili, allo scopo di rendere più visibile la recinzione stessa e di associare il colore al dolore provocato dalla scossa elettrica, ottenendo, quindi,un maggiore rispetto della recinzione da parte dei suini.
Per la movimentazione dei suini e dei mezzi meccanici si deve prevedere un accesso per ogni recinto; il sistema più comune è quello di utilizzare apposite molle collegate alla recinzione elettrica e dotate di maniglie isolanti per la loro temporanea rimozione.
Gli apparecchi elettrificatori necessari per fornire energia ai recinti sono di vario tipo e di diversa potenza; essi convertono l’energia elettrica in impulsi di brevissima durata e di elevatissima tensione, molto dolorosi, ma distanziati nel tempo, in modo che l’animale possa indietreggiare dopo aver ricevuto la scarica.
Per quanto riguarda le capannine,sul mercato europeo ce n’è disponibile una vasta gamma con soluzioni differenti, sia per forma e dimensioni, sia per materiali costruttivi impiegati; questi ultimi possono essere il legno, in tavole o compensato, la lamiera d’acciaio zincata, la vetroresina e le materie plastiche.
Le capannine per la fase di maternità sono destinate amaiali stato brado ospitare una sola scrofa con la nidiata e sono dotate, di norma di finestra per la ventilazione e di piccolo recinto esterno in  corrispondenza dell’ingresso, per impedire l’uscita dei suinetti durante i primi giorni di vita.
Normalmente le capannine di maternità sono prive di fondo e all’inizio di ogni ciclo devono essere riempite con abbondante lettiera di paglia (da 10 fino a 40 kg a seconda del clima), che viene trattenuta all’interno per mezzo di un apposito bordo. La paglia ha il duplice
scopo di garantire agli animali un adeguato isolamento termico durante la stagione fredda e di offrire un substrato sufficientemente soffice per limitare i casi di schiacciamento dei suinetti da parte della scrofa.
Le capannine per le fasi di gestazione e d’ingrasso sono realizzate, di norma, con soluzioni costruttive semplici ed economiche e sono dimensionate per ospitare gruppi di animali (5-7 scrofe, 10-20 suini all’ingrasso). Sul mercato vengono proposte capannine in vetroresina e in lamiera di acciaio zincata, con dimensioni che possono variare in funzione del numero di capi alloggiati. Una soluzione alternativa alle capannine è costituita dalla struttura denominata “tenda”, realizzata mediante l’impiego di telo plastico sorretto da una struttura tubolare a doppia falda di acciaio zincato, a sua volta fissata su due pareti contrapposte costituite da una doppia fila di balle di paglia di forma prismatica o cilindrica. Le balle devono essere ancorate l’una all’altra e protette dai suini mediante rete elettrosaldata; i teli vengono tesi e fissati sulla struttura di sostegno, prevedendo ampi lembi per la copertura delle pareti di paglia, onde evitare infiltrazioni di acqua piovana.
Le capannine per la fase di svezzamento devono presentare un buon grado di coibentazione del tetto e delle pareti; normalmente dispongono di mangiatoie interne a tramoggia con rifornimento di mangime dall’esterno e di abbeveratoi a tazzetta o a succhiotto
installati sul lato esterno.
I principali modelli in commercio sono costituiti da strutture a una falda o ad arco realizzate con pannelli di compensato marino, con vetroresina oppure con pannelli sandwich di lamiera zincata coibentati con polistirene o poliuretano espanso.
La capienza di ciascuna capannina dipende dalle sue dimensioni interne e, ovviamente, dal peso vivo finale dei soggetti ospitati; generalmente le dimensioni interne sono adatte a contenere da 20 a 60 suinetti fino al peso di 20-35 kg.
Nella maggior parte dei casi ogni capannina dispone di un recinto esterno a cielo aperto, di superficie doppia rispetto a quella interna, delimitato da pannelli ciechi in legno o in lamiera d’acciaio zincata; in alternativa si può prevedere un recinto molto più ampio di terreno inerbito, dimensionato con superfici di 25-30 m2/capo e delimitato con recinzione fissa o elettrificata a
maglia quadrata del tipo di quella impiegata per gli ovini.
il-maiale-brado-di-norcia-in-umbriaL’impatto ambientale nella produzione
Le norme vigenti disciplinano lo spandimento dei liquami e il carico di suini in
riferimento all’allevamento intensivo e non a quello all’aperto. In ogni caso per
ridurre il rischio d’inquinamento da nitrati e preservare la struttura del suolo
occorre limitare la permanenza degli animali sullo stesso terreno e creare un
buon cotico erboso, che influisce positivamente anche sul benessere degli animali.
Gli allevamenti suinicoli “industriali” si caratterizzano per l’elevata concentrazione di capi in limitate superfici stabulative coperte e per il carico di bestiame molto elevato in rapporto alla Sau. Una tale organizzazione degli allevamenti ha originato gravi problemi di impatto ambientale legati principalmente ai rischi di inquinamento idrico connessi allo smaltimento di elevati volumi di liquami suinicoli. Il superamento di tali problemi passa anche attraverso l’adozione di tecniche di stabulazione più rispettose dell’ambiente tra cui l’allevamento su lettiera e l’allevamento all’aperto. Per quest’ultima tecnica risulta strategica l’analisi e la verifica sperimentale della sostenibilità ambientale, in particolare per le aree marginali del nostro Appennino per le quali tale tecnica viene solitamente proposta. Ciò per acquisire le informazioni necessarie alla definizione dei criteri cui gli allevatori devono attenersi per garantire l’ecocompatibilità del sistema di allevamento all’aperto. Per questo appare importante un progetto di verifica delle condizioni di sostenibilità ambientale dell’allevamento suino brado e semibrado nell’Appennino emiliano-romagnolo, presentato dal Centro Ricerche Produzioni Animali nell’ambito della tornata di finanziamenti previsti per il 2004 sulla legge 28/98 della Regione Emilia-Romagna. L’allevamento all’aperto, infatti, non comporta alcuna produzione di liquami ma richiede, comunque, il rispetto di un rapporto equilibrato tra superficie agricola aziendale e peso vivo allevato. A tale proposito le conoscenze scientifiche sono tuttora limitate e i risultati dei pochi studi condotti di recente in ambito internazionale non risultano trasferibili alla realtà territoriale e produttiva dell’Emilia Romagna, caratterizzata dalla produzione di suino pesante.
Per evitare equivoci, è necessario sottolineare, però, che allevamento dei suini all’aperto non è sinonimo di metodo di produzione biologica, anche se è vero che questa tecnica facilita l’adozione del metodo biologico. La motivazione principale sta nel fatto che, nel caso in cui un allevatore intenda convertire un allevamento intensivo convenzionale alla produzione biologica, deve sostenere oneri molto forti, principalmente perché, a parità di capi allevati,deve ampliare notevolmente le superfici coperte a causa delle maggiori superfici unitarie minime di stabulazione richieste dal regolamento Ce 1804/99 (Allegato VIII) che sono pressoché doppie rispetto a quelle previste dalle norme minime per la protezione dei suini (decreti legislativi n. 534/92 e n. 53/04). Nell’allevamento all’aperto, invece, possono essere soddisfatte abbastanza agevolmente le condizioni relative al sistema di
stabulazione, così come previsto dal citato regolamento e dalle relative norme d’attuazione (decreto ministeriale 4 agosto 2000, decreto ministeriale 29 marzo 2001 e per la Regione Emilia- Romagna la delibera della giunta regionale 5 maggio 2003 n. 794).
Un vuoto normativo da colmare
In materia d’impatto ambientale la tecnica d’allevamento dei suini all’aperto non è contemplata né dalla normativa nazionale (decreto legislativo n. 152 dell’11 maggio 1999, che ha recepito la cosiddetta direttiva “nitrati”) né dalla normativa vigente in Emilia Romagna (legge regionale 24 aprile 1995, n. 50 e relative norme di attuazione), che disciplina soltanto lo spandimento sul suolo dei liquami provenienti da insediamenti zootecnici senza prevedere norme specifiche relative al rilascio in continuo, per tutto l’arco dell’anno o del ciclo produttivo, delle deiezioni da parte dei suini stessi. Inoltre, nella definizione delle densità dei suini all’interno dei recinti di allevamento non è propriamente corretto applicare agli allevamenti all’aperto i limiti di carico di suini per unità di superficie agricola destinata allo spandimento, fissati dalla normativa per gli allevamenti intensivi, con riferimento a 170 kg di azoto per ettaro per anno (zona vulnerabile o aziende biologiche) e ai 340 kg di azoto per ettaro per anno (zona non vulnerabile). Infatti tali limiti sono riferiti all’allevamento stabulato e alla relativa pratica di spandimento frazionato, nel corso dell’anno, di liquami precedentemente stoccati e maturati in azienda mentre nell’allevamento all’aperto le deiezioni sono rilasciate fresche e in continuo, per tutto l’arco dell’anno o del ciclo produttivo; pertanto, essendo diverse le qualità dei reflui distribuiti sul suolo e le loro modalità di distribuzione, si ritiene che altrettanto diversi possano essere nei due sistemi di allevamento i fenomeni di degradazione, di adsorbimento e di trasporto nel suolo dei nutrienti contenuti nelle deiezioni e, in particolare, dell’azoto in forma nitrica. La permanenza di un vuoto normativo per gli allevamenti all’aperto può comportare seri problemi d’interpretazione e di applicazione delle norme da parte degli organismi di controllo (Arpa, Asl, Corpo Forestale, ecc.) con il rischio per gli allevatori di incontrare difficoltà nell’ottenimento del rilascio delle autorizzazioni necessarie per la normale conduzione dell’attività zootecnica. L’acquisizione di dati sperimentali è quindi utile anche per gli organismi legiferanti in materia d’impatto ambientale degli allevamenti zootecnici, affinché in futuro si possa giungere ad emanare norme specifiche per l’allevamento all’aperto dei suini.
Carichi e pascolo brado
L’allevamento all’aperto comporta, comunque, la necessità di prevedere un rapporto equilibrato tra superficie agricola aziendale e peso vivo allevato. A livello orientativo si possono indicare le superfici minime unitarie, tratte dalla bibliografia internazionale,da considerare per il dimensionamento dei recinti in base alle diverse fasi d’allevamento (tabella alla pagina  precedente).
I principali limiti a questa forma di allevamento sono rappresentati dai fattori pedo-climatici. Il terreno non deve essere eccessivamente pesante ma, al contrario, deve essere strutturato in modo tale da permettere un efficace allontanamento delle acque meteoriche evitando i ristagni idrici; ciò al fine di garantire agli animali condizioni di benessere accettabili dal punto di vista
igrotermico e di consentire in ogni stagione dell’anno la percorribilità delle vie di transito.
Un aspetto particolare dell’allevamento all’aperto riguarda l’analisi e la verifica della sostenibilità ambientale dell’allevamento brado in aree boschive e marginali; scopo principale è individuare i motivi di opportunità del pascolo brado, sia quelli attivi (effetti positivi sugli ecosistemi per il rimescolamento degli strati superficiali, l’apporto di sostanza organica, la riattivazione di catene trofiche utili alla fauna selvatica, ecc.) che passivi (utilizzazione di risorse alimentari come specie vegetali erbacee, frutti spontanei, microfauna, ecc.), e di definirne i limiti di compatibilità e sostenibilità al fine di evitare danni agli ecosistemi. Un’analisi di questo tipo si dovrebbe proporre di definire i limiti di compatibilità e sostenibilità in osservanza dei provvedimenti normativi per i terreni
pascolivi (art. 67, 68, 69 delle Prescrizioni di Massima e Polizia Forestale, delibera della giunta regionale 31 maggio 1995 n. 182) e dei riferimenti specifici in materia d’impatto ambientale dell’attività zootecnica, al fine di predisporre una razionale gestione del bosco in funzione del pascolo e di impedire pertanto danni agli ecosistemi.
A protezione del suolo
Per limitare i rischi d’inquinamento da nitrati e garantire il mantenimento della struttura del suolo, è necessario che i suini permangano sullo stesso terreno per un periodo non superiore a due anni nei settori di riproduzione e di svezzamento e a un anno o alla durata di un unico ciclo (per esempio, da 25-30 kg a 130-150 kg) nei settori di accrescimento e ingrasso. La limitata
permanenza dei suini sullo stesso terreno ha anche la funzione igienicosanitaria di contenere la diffusione delle parassitosi. In ogni caso la presenza di cotico erboso nei recinti d’allevamento riduce i rischi di lisciviazione e d’infiltrazione dei nitrati nel terreno; inoltre la copertura vegetale del terreno sembra influire positivamente anche sul benessere degli animali e, in particolare, sulle
prestazioni produttive delle scrofe. Nei recinti il prato deve essere seminato l’annata precedente quella d’immissione dei suini,
utilizzando varietà di graminacee caratterizzate da rapido sviluppo vegetativo e da un buon adattamento alle condizioni pedologiche e climatiche; di norma il prato è seminato in autunno per procedere all’immissione dei suini a metà della primavera successiva, generalmente dopo avere effettuato un primo taglio. Per favorire la conservazione della copertura vegetale durante il periodo di allevamento occorre evitare un eccessivo calpestio del suolo, adottando carichi di animali per unità di superficie sufficientemente bassi, in relazione alle caratteristiche del terreno.
Dimensioni minime dei recinti per l’allevamento di suini all’aperto
Categoria Superficie unitaria (m2/capo)
Scrofe in maternità 300-500
Suini riproduttori in fecondazione e in gestazione 400-600
Suinetti in svezzamento 25-50
Suini in accrescimento e ingrasso 60-200

Per approfondimenti:

allevamento del maiale all’aperto

allevare maiale aperto

L’ALLEVAMENTO ALL’APERTO DEL SUINO

Linee guida della Regione Emilia romagna per l’allevamento del maiale allo stato brado

Suini, così si allevano all’aperto

Maiale Cinta Senese

cinta seneseLe origini di questa razza sono molto antiche ed esistono testimonianze pittoriche che dimostrano l’allevamento di suini simili all’attuale Cinta Senese fin dal Medioevo. Il tratto più caratteristico di questo suino è la presenza di una cinghiatura bianca, che dà il nome alla razza, su un mantello che è di colore nero-ardesia. La più famosa raffigurazione di un suino che assomiglia all’attuale Cinta Senese è di ambrogio Lorenzetti, “Effetti del buon Governo” (1319-1347), nel Palazzo Comunale di Siena. Altre rappresentazioni di suini con cinghiatura bianca appaiono in dipinti e affreschi della scuola senese del XII secolo in diverse chiese della campagna di Siena. Questa razza era probabilmente conosciuta anche al di fuori della Toscana, come si può dedurre dalla presenza di altre opere pittoriche raffiguranti questo animale, ad esempio a Venezia nella cappella dell’Annunziata, in un dipinto datato 1510, di esecuzione faentina.
E’ una razza molto rustica e frugale, per cui la sua struttura si avvicina al tipo longilineo, con arti abbastanza lunghi ma robusti, tronco poco profondo, testa allungata a profilo rettilineo, adatta al pascolamento.
L’area di origine e di allevamento della Cinta Senese è quella della Montagnola Senese, compresa nel territorio dei comuni di Monteriggioni, Sovicille, Gaiole, Castelnuovo Berardenga e Casole d’Elsa, nel territorio delimitato dall’alta valle del fiume Merse da una parte e dall’alta valle del fiume Elsa dall’altra.
Negli anni Quarante del XX secolo veniva definita come la più importante razza suina della Toscana, ed era allevata in modo assai diffuso per ottenere l’incrocio di prima generazione con il Verro Large White. Questi meticci, noti con i nomi di “grigi” o “tramacchiati”, erano molto ricercati dai caseifici del Nord Italia (che alimentavano i suini col siero che rimaneva dopo la casificazione) per la produzione del suino Pesante, in quanto dotati di rusticità, di facile ingrassamento e di carne molto pregiata.
Ad opera dell’ispettorato Provinciale dell’Agricoltura di siena, fin dai primi anni Trenta, fu attuata per questa razza un’azione di miglioramento genetico che comprendeva l’apertura di un Libro Genealogico. Tale libro venne poi chiuso negli anni sessanta a causa della forte contrazione demografica della razza che sfiorò l’estinzione; venne poi riaperto nel 1997 e trasformato in Registro Anagrafico nel 1999.
La Cinta Senese era molto diffusa in Toscana fino agli anni Cinquanta. Tra gli anni Sessanta e Novanta ha subito una drastica contrazione demografica, ma negli ultimi anni so è registrata una inversione di tendenza e la Cinta Senese presenta ormai da qualche tempo un trend positivo.
La Cinta Senese produce carne di ottima qualità, le cui caratteristiche sono apprezzate soprattutto per la trasformazione in salumi tipici. Il peso di macellazione varia dai 40 ai 60 kg per la produzione della porchetta. Per la produzione del suino pesante il peso di macellazione medio è di circa 120 kg e la sua carne viene prevalentemente trasformata in salumi tipici tradizionali, quali il prosciutto toscano, la spalla salata, le salsicce, la gola, il lardo, la pancetta o rigatino, il capocollo, la soppressata, la finocchiona, il buristo. Come carne fresca viene utilizzata maggiormente la lombata per la cottura sulla griglia sotto forma di bistecche e rosticciane.
E’ un animale adatto all’allevamento all’aperto, allo stato brado o semibrado.

Caratteristiche morfologiche

cintaseneseE’ una razza di tipo fine, di taglia media, con scheletro leggero ma solido. Il peso adulto è di 300 kg per i verri e di 250 kg circa per le scrofe.

Mantello e cute – La cute e le setole sono di colore nero, salvo la presenza di una fascia bianca continua che circonda completamente il tronco all’altezza delle spalle includendo gli arti anteriori. Il passaggio tra nero e bianco può essere graduale e non netto. Sono inoltre ammesse macchie nere all’interno della fascia bianca.
Testa – La testa è di medio sviluppo, con profilo fronto-nasale rettilineo; orecchie dirette in avanti e in basso, di media lunghezza.
Collo – Il collo è allungato ed armonicamente inserito nel tronco.
Tronco – Il tronco è moderatamente lungo, di forma cilindrica depressa lateralmente, torace poco profondo e addome ampio, spalle muscolose e ben fasciate, linea dorso-lombare diritta, groppa inclinata, coda attorcigliata, natiche ben discese.
Arti – Gli arti sono medio-lunghi, sottili ma solidi, con articolazioni asciutte, pastorali netti e unghielli compatti.
Caratteri sessuali – Nel maschio: testicoli ben pronunciati. Nella femmina le mammelle devono essere in numero non inferiore a 10, regolarmente distanziate, con capezzoli normali ben pronunciati e pervii.

da Atlante delle razze autoctone – Daniele Bigi, Alessio Zanon – Edagricole

Giovane aggredita dai suoi cani

valentinaMentre Valentina Meloni, la giovane aggredita dai suoi cani a San Vero Milis si sta riprendendo lentamente, è stato eseguito sul cane corso maschio il test antirabbica: il risultato è negativo.

Rubo, il cane corso che alla vigilia di Pasqua ha aggredito la proprietaria Valentina Meloni, non era infetto dal virus.

I risultati sono arrivati ieri mattina dall’istituto zooprofilattico delle Venezie di Padova. “Adesso si deve completare l’esame con la ricerca del virus – spiega Tonino Falconi, veterinario della Asl 5 di Oristano – ma è praticamente certo che il cane non avesse la rabbia”.

La Sardegna è stata una delle prime regioni italiane a essere indenne da questo virus “tanto è vero che non è obbligatoria nemmeno la vaccinazione. L’esame all’esemplare corso è stato effettuato perché previsto per legge dopo un episodio così violento”.

Un’aggressione da cui la giovane titolare del chiosco-bar di Sa Rocca Tunda (nella marina di San Vero Milis) si sta riprendendo lentamente. Dopo i quattro giorni di coma, le condizioni migliorano e a breve Valentina Meloni dovrebbe essere trasferita in un centro di ortopedia specializzato nella penisola. L’altro cane corso, Emma, invece è sempre sotto osservazione nel canile Dog Village di Arborea. “La cagna deve stare dieci giorni isolata dagli altri animali – va avanti lo specialista della Asl 5 – poi se tutto andrà bene sarà riconsegnata al proprietario”.

L’EPISODIO – Risale alla vigilia di Pasqua. Valentina era in spiaggia, a Sa Rocca Tunda coi suoi pastori corsi. Una passeggiata come tante altre, ma quella sera qualcosa è andato storto: una furia improvvisa, prima Rubo e poi anche Emma si sono scagliati contro la padrona (secondo quanto raccontato dalla ragazza al risveglio dal coma). La giovane è stata ritrovata da alcuni ragazzi, immediatamente è scattato l’allarme. “Sarà Valentina, se lo vorrà, a raccontare come sono andati i fatti – aggiunge Tonino Falconi – di certo non bisogna dimenticare che i cani sono sempre animali. Chiunque serenamente può prendersi cura di un cane, ma soprattutto quelli di grossa mole vanno educati, non bisogna mai sottovalutare certi segnali”.

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Merlo Indiano

merlo indiano 2Il merlo indiano è un uccello molto popolare per la sua eccezionale abilità nell’imitare i suoni e la voce umana, e per la sua vivace personalità. È un uccello socievole che richiede molta compagnia, ma sa a sua volta intrattenere con la sua incredibile capacità di parlare. Richiede compagnia e attenzioni, e gli si deve dedicare ogni giorno un certo tempo per le pulizie della gabbia, perché sporca molto.

Generalità

gracula religiosaIl merlo indiano o maina (Gracula religiosa) fa parte della famiglia degli Sturnidi, appartenente all’ordine dei Passeriformi. Proviene dall’Asia, dove in natura ha un areale di distribuzione piuttosto vasto, che si estende dalle pendici dell’Himalaya fino allo Sri-Lanka e alle Filippine e dai confini orientali del Pakistan all’Indocina. Quest’ampia area è popolata da 32 specie diverse, alcune sono stanziali – prevalentemente quelle che vivono nelle aree tropicali; altre sono migratorie e preferiscono i tropici solo durante i periodi invernali. In natura vive circa 10 anni mentre in cattività, se ben tenuto, vive il doppio. I merli indiani vivono in stormi di una ventina di esemplari tenendosi sempre in contatto tramite molteplici tipi di suoni, da fischi striduli a tonalità più basse e roche.

Gracula religiosa è la specie più diffusa in Europa; comprende 12 sottospecie, ma in cattività se ne incontrano comunemente solo tre e tutte delle zone temperate. La classificazione è comunque sempre in evoluzione ed esistono pareri diversi, visto le molte similarità delle varie sottospecie.

    • Gracula religiosa indica: originaria del Sud dell’India e dell’isola di Sri-Lanka, con i suoi 25 cm di lunghezza è la più piccola delle tre. E’ considerata la meno abile come imitatrice;

    • Gracula r. intermedia: proviene dalle colline al sud dell’Himalaya, dall’India settentrionale, dalla Birmania e dal sud della Cina. Misura dai 25 ai 30 cm;

  • Gracula r. religiosa: originaria del Borneo, della Malesia e di Sumatra, Bali e Giava. E’, con i suoi 35 cm di lunghezza, la più grande delle sottospecie, è anche considerata la migliore imitatrice.

Gran parte delle altre specie non sono commercializzate o commercializzabili. Le varie sottospecie si differenziano per le dimensioni e il peso (che varia tra i 130 ed i 210 g), la forma delle caruncole occipitali gialle o giallo arancio, per il colore di becco e zampe, i riflessi delle penne e la presenza di macchie o strie bianche sulle ali. Bisogna però ricordare che l’estensione delle caruncole aumenta con età dell’uccello in molte di queste sottospecie.

Legislazione

Le maine rientrano nell’Appendice II della Convenzione di Washington (CITES), sono quindi elencate nella lista delle specie protette. Possono essere commercializzate solo con un documento CITES di importazione valido.

Se possibile è bene informarsi di quale origine hanno questi animali, infatti, nella grande maggioranza dei casi questi uccelli sono esemplari prelevati in natura. Alcune specie e sottospecie vivono nelle foreste pluviali di Thailandia, Birmania e Indonesia dove sono ormai animali rari, proprio per il continuo depauperamento della popolazione dovuto alla continua sottrazione di nidiacei dal proprio ambiente. È bene quindi evitare soggetti prelevati in natura.

La scelta

maina2Dovendo comprare una maina, osservatela con attenzione per evidenziare eventuali segni di malattia. Il piumaggio deve essere in ordine, senza aree nude, le narici pulite, gli occhi limpidi e ben aperti. Il respiro deve essere normale, senza evidenti espansioni dell’addome o movimenti della coda, ed essere silenzioso. Eventuali rumori respiratori sono sempre anormali, anche se occasionalmente le maine possono starnutire in condizioni normali. Osservate con attenzione il comportamento e verificate che sia un animale vivace e di buon appetito. L’età negli adulti è impossibile da determinare, anche nei soggetti anziani. Anche il sesso non può essere determinato con la sola ispezione, perché maschi e femmine sono identici.

Controllate che la gabbia in cui è alloggiata sia ben pulita e informatevi riguardo al tipo di cibo con cui è stata alimentata. È una buona regola far visitare l’animale da un veterinario esperto in medicina aviare subito dopo l’acquisto, per evitare sorprese.

Allevamento

In natura il merlo indiano nidifica nei cavi degli alberi e vive nella parte superiore della foresta pluviale, è bene ricordarsi di questa informazione tutte le volte che siamo chiamati a fare scelte per il benessere dell’animale. Come per tutti gli esseri viventi, per cui si è decisa la cattività, l’allevamento dovrebbe avvenire fornendogli un ambiente il più possibile vicino a quello naturale, per cui anche il maggior spazio possibile. Una voliera, quindi, sarebbe l’ambiente ottimale, scelta che diviene essenziale in caso si decida di riprodurli. Durante la stagione invernale è consigliabile, ove i climi siano più rigidi, ospitarli in casa. Qualora la maina venga tenuta in gabbia le dimensioni non devono essere inferiori a cm 100 (lunghezza) x 60 x 60 (altezza e profondità); meglio se la gabbia è di tipo inglese, cioè con la possibilità di applicare delle pareti, non trasparenti, su tre lati della gabbia. La gabbia inglese permette alla maina di avere una propria “privacy”, rendendola più tranquilla perché riesce a mantenere un completo controllo sull’ambiente circostante, o meglio su quella porzione di ambiente che le resta aperto alla vista. Inoltre questi schermi evitano che le abbondanti deiezioni di questi uccelli imbrattino la zona immediatamente circostante alla gabbia. Sconsigliabili, invece, sono le gabbie rotonde, per il cattivo sfruttamento dello spazio, e perché non permettono un’adeguata apertura alare per cui le ali vanno incontro a continui traumi e/o alla rottura delle penne. La gabbia dovrà contenere gli arredi convenzionali, ma è bene che i posatoi siano dei rami naturali, di 2-4 cm di diametro, lavati e disinfettati e, nel limite del possibile, completi di corteccia.

Le piante di cui si possono utilizzare i rami sono: salice e salice piangente, melo, melo selvatico, 0lmo, frassino, faggio, betulla, corniolo, sanguinella, pioppo bianco, pioppo nero, pioppo tremulo.

Questo accorgimento metterà in condizioni il merlo indiano (ma la regola vale per tutti gli uccelli in cattività), di fare un costante esercizio con i piedi, che così non si indeboliranno, finendo poi per lesionarsi. Potrebbe essere utile un’apertura sul fondo per asportare la lettiera senza dover aprire tutta la gabbia, rischiando la fuga dell’uccello.

I merli indiani hanno bisogno di sole e calore, per cui la parte aperta della gabbia non dovrebbe essere mai orientata verso nord. Ottima pratica è fornirgli, in inverno, una fonte di calore supplementare, anche se tenuti in casa; una lampada a raggi infrarossi è più che sufficiente. Le gracule sono abbastanza resistenti alle basse temperature, attitudine ancora maggiore se provenienti da zone con un clima molto variabile, come il Nord dell’India. Ciò non vuol dire che lo siano anche agli sbalzi di temperatura, specie se repentini. Questo non esclude la possibilità di ospitarli in voliera, a patto che vi restino tutto l’anno, che l’ambiente sia ben progettato e che vengano alimentati in maniera adeguata, soprattutto quando fa freddo. Anche l’umidità potrebbe essere un fattore stressante; in natura le maine vivono in habitat con tassi di umidità elevati, attorno al 70%.

Il miglior substrato per ricoprire il fondo della gabbia è dato dai giornali quotidiani; è economico reperirli e facilitano la sostituzione giornaliera, sono ottimi per assorbire le deiezioni e non sono tossici. I giornali, tra l’altro, spesso vengono utilizzati per costruire un riparo qualora la gabbia non sia fornita di ricovero. L’acqua deve essere fornita con un beverino esterno; la superficie dell’abbeverata deve essere minima (ma sufficiente all’introduzione del becco!) diminuendo così i rischi di inquinamenti fecali; per la stessa ragione anche i contenitori di cibo dovrebbero essere esterni alla gabbia. Il contenitore dell’acqua va lavato tutti i giorni e disinfettato una volta alla settimana per evitare lo sviluppo di batteri pericolosi, comePseudomonas spp., ed anche quello delle alghe. Le vaschette per gli alimenti dovrebbero essere due, una per il pastoncino ed una per i cibi freschi. Alla fine di ogni giornata vanno entrambe svuotate e ben lavate con detersivo per piatti e successivamente ben sciacquate, alfine di evitare la formazione di muffe o la crescita eccessiva di batteri; una volta alla settimana vanno disinfettate con uno dei tanti prodotti reperibili sul mercato oppure con candeggina diluita (un cucchiaio in due litri di acqua). Almeno una volta al giorno, soprattutto d’estate, bisognerebbe dare la possibilità al merlo indiano di fare il bagno, per questo si può introdurre sul fondo una vaschetta con acqua in cui sguazzerà contento. In inverno è possibile sostituire l’acqua con la sabbia.

I merli indiani sono animali curiosi ed amano esplorare, per questo mettere dentro la gabbia alcuni oggetti, anche colorati, giochi per bambini piccoli (anche sonagli capaci di far rumore) o per pappagalli, tubi di cartone, catenelle di corda naturale, ne migliora le condizioni di vita.

Alimentazionemaina1

La maina è un uccello onnivoro; volando sopra gli alberi trova i suoi alimenti preferiti, come frutta, nettare dei fiori, insetti e anche nidiacei compresi quelli della sua stessa specie. Come sappiamo, la salute di ogni animale è dipendente in buona misura da un’alimentazione ben bilanciata, infatti più della metà delle malattie riscontrate negli uccelli esotici trae origine da una cattiva alimentazione.

Le maine hanno una particolarità fisiologica che le caratterizza: sono particolarmente predisposte all’accumulo nel fegato del ferro contenuto nell’alimento, che causa una grave patologia che le porta alla morte. Per mantenersi in salute richiedono dunque una dieta con una quantità di ferro piuttosto limitata. La maggior parte degli alimenti confezionati per le maine vengono preparati senza attenzione a questo particolare e contengono spesso livelli di ferro eccessivi. Volendo scegliere cibi confezionati è quindi indispensabile verificare sulla confezione la percentuale di ferro che vi è contenuta, che deve essere inferiore a 150 ppm (parti per milione), o preferibilmente più bassa. Se l’indicazione sul contenuto di ferro non è riportata sulla confezione, il prodotto va senz’altro scartato. Se non si riesce a reperire un alimento idoneo, si può ripiegare su un mangime pellettato (formulato in granuli) per pappagalli di piccola taglia, integrato con frutta fresca a pezzetti.

Indipendentemente dal tipo di preparazione (miscelatura, estrusione, pellettatura, ecc.), gli alimenti commerciali ben formulati contengono tutto il necessario alla vita in buona salute dei nostri uccelli. I principali vantaggi di questo tipo di alimentazione sono di facile comprensione: gli alimenti sono prodotti con una scelta obiettiva delle materie prime; il processo produttivo permette l’eliminazione di eventuali batteri, funghi e muffe e inoltre permette l’integrazione, durante la lavorazione, di vitamine, minerali e altri oligoelementi. L’alimento è perfettamente bilanciato così si possono formulare alimenti differenziati per i diversi momenti fisiologici della vita degli uccelli (crescita, allevamento, mantenimento). Inoltre non contengono gusci o bucce, per cui il maggiore costo è compensato dall’assenza di scarti, perciò si osserva una netta diminuzione di sporco attorno alla gabbia ed è più facile esercitare una verifica obiettiva della quantità di alimento effettivamente consumata. Ciò permette un certo controllo anche del costo dell’alimentazione.

Tale alimentazione pre-formulata ha anche alcuni aspetti negativi: l’alimento è un po’ monotono, la dieta ha un’umidità più bassa delle necessità del merlo indiano, per cui diviene fondamentale la presenza di acqua fresca.

Per una migliore conservazione del cibo bisogna trovare un luogo fresco ed asciutto e non sempre è possibile tenerne grosse quantità in frigorifero. Per fortuna oggi è possibile rifornirsi di questi alimenti, perché meglio distribuiti di qualche tempo fa. Questo tipo di alimento può essere lasciato a disposizione a volontà, avendo cura di tenere il peso dell’animale sempre sotto controllo per evitare l’obesità.

Alcune marche di mangimi per maine ben formulati sono: Pretty Bird Softbill Select, Kaytee Exact Original Softbill Food, Mazuri ZuLiFe Soft-Bill Diet.

Si possono offrire anche riso integrale bollito, patate lesse, mais, mele, banane, pere, papaya, meloni, anguria. Si deve evitare di offrire la frutta più ricca di vitamina C (agrumi e kiwi), perché la vitamina C favorisce l’assorbimento del ferro, e gli alimenti ricchi di ferro come uva, verdure a foglia e verdure di colore verde scuro. Per comodità, si può anche usare la frutta in scatola, purché non zuccherata.

Ovviamente qualora si decida un cambio di alimentazione la maina deve essere educata ad accettare gli alimenti nuovi e/o diversi e di conseguenza anche i proprietari devono imparare a fornirgli l’alimento in modo corretto. Questo è utile per controllare lo stato di salute dei propri animali (anoressia) e contemporaneamente evitare inutili sprechi.

Alcune strategie per modificare il comportamento alimentare dei merli indiani sono le seguenti.

  • Non sostituite improvvisamente la vecchia dieta con la nuova; ciò, oltre ad essere controproducente, è spesso anche pericoloso.

  • Le maine scelgono l’alimento in base alle sue caratteristiche fisiche (forma, dimensione, colore e consistenza), più che chimiche (odore e sapore), per cui spesso l’alimento nuovo non viene accettato in quanto “strano a vedersi”: all’inizio offrite una razione normale, di alimento convenzionale, nascosto da un leggero strato di cibo pre-formulato, in modo che i vostri merli indiani siano obbligati a prendere nel becco il nuovo cibo, per arrivare a quello vecchio.

  • Procedete in modo progressivo alla sostituzione, fino ad arrivare alla completa eliminazione del cibo vecchio.

  • Una volta insegnato ai vostri uccelli ad alimentarsi con il cibo pre-formulato, riducetene la quantità fino ad arrivare a determinare il consumo medio giornaliero; aumentate quindi tale valore del 10-15%: questa sarà la razione quotidiana dei vostri animali.

  • Oltre al cibo pre-formulato va offerta sempre una buona scelta di frutta e verdura fresche di stagione, tagliate a pezzetti.

Alimenti tossici: non offrire mai avocado e cioccolata, oltre naturalmente a tutto ciò che può essere tossico per l’uomo e per gli altri animali.

Il rapporto maina-uomo

La gracula è un ottimo pet e raggiunge un alto livello di confidenza con l’uomo, solo inferiore a quello che si può osservare con alcuni pappagalli. Per questo motivo è bene scegliere una maina solo se si può assicurarle, nell’arco della giornata, diverse ore di compagnia, altrimenti è bene prendere una coppia. Il proprietario ideale per il merlo indiano è una persona che lavora in casa, oppure che può ospitare l’uccello dove svolge la sua attività.

Come prima accennato, infatti, le gracule hanno bisogno di avere un po’ di attività nei loro pressi, altrimenti si annoiano. Oppure possono tenere altri uccelli, in differenti voliere, ma nella stessa stanza. Le straordinarie doti di parlatore risultano migliori nelle maine allevate a mano sin dalla più giovane età.

Riproduzione

La riproduzione in cattività delle maine è piuttosto difficile.

Le maine sono uccelli monomorfici, vale a dire che maschi e femmine sono esternamente identici e non è possibile distinguere i due sessi dall’aspetto. Se si vuole determinare il sesso si deve procedere a un test genetico (eseguito in laboratorio dal sangue o da alcune penne) oppure con un intervento di endoscopia eseguito in anestesia generale.

Una volta in possesso di una coppia “certa”, la riproduzione va necessariamente tentata in una voliera esterna: finora non è mai successo che una coppia di questi uccelli si riproducesse in casa. La coppia va quindi alloggiata in un’ampia voliera di almeno m 1,5 x 2 x 2 d’altezza, ed è necessario che siano gli unici animali presenti nella gabbia. Nonostante sia un animale sociale nel periodo della cova la coppia ha esigenza di quiete. La presenza continua dell’allevatore o l’eccessiva frequenza dei suoi controlli possono far desistere la coppia dalla cova. In natura le gracule covano tra aprile e agosto. Nella voliera verranno posti a dimora alcuni cespugli e, al limite, anche qualche piccolo albero. Inoltre si disporranno fra le fronde almeno due o tre nidi a cassetta (20 cm per 20 cm e 30 cm di altezza, con un’apertura rotondeggiante di almeno 8 cm), oppure si metteranno un paio di tronchi scavati delle medesime dimensioni. All’interno le maine costruiscono la “coppa” deputata a contenere le uova, per questo è meglio lasciarle a disposizione diversi tipi di materiale: fieno, fili di lana, muschio, foglie secche, bastoncini, fronde. A nido pronto depongono due o tre uova verde pallido, con piccole macchie bruno-rossastre, di 26 mm per 36 mm. La cova dura 13 – 15 giorni ed inizia dopo la deposizione del secondo uovo. I piccoli vengono accuditi da entrambi i genitori finché si rendono indipendenti, cioè a 30 – 35 giorni, ma già attorno al 22° giorno sono completamente piumati. Le caruncole occipitali, generalmente di colore giallo, negli individui giovani sono rosa, così come le zampe, per la mancanza di pigmento.

La maturità sessuale viene raggiunta a un anno di età.

fonte: http://www.aaeweb.net

Pappagallo Ara

ara

 

Classificazione e distribuzione

ara3L’Ara ararauna (Linnaeus 1758) è uno dei più grossi pappagalli esistenti sul pianeta. Appartenente alla famiglia degli Psittacidae ed al genere Ara, occupa come areale di distribuzione con le proprie popolazioni prevalentemente il Centro ed il Sud America, vivendo lungo i corsi d’acqua di Bolivia, Paraguay, Brasile, Ecuador ecc….
Descrizione

Con i suoi 90 cm di lunghezza complessiva l’Ara blu e gialla (come viene chiamata comunemente) è un maestoso pappagallo dal becco nero. La particolarità più evidente e che accomuna tutte le ara è quella di possedere le zone guanciali nude, costituite da epidermide di colore bianco ed ornate con piccole piume nere. In particolare, secondo alcune mie osservazioni, è ipotizzabile che la disposizione di queste piume possano svolgere un significato comunicativo, identificando individualmente i soggetti.

La parte dorsale del corpo, vale a dire dalla nuca all’apice della coda, è di un bel blu-azzurro iridescente, mentre la parte ventrale, composta cioè dal petto, dal ventre, il sotto ala e sotto coda, sono di un giallo carico.
Forti e tozze le zampe, che sono di un colore grigio con unghie nere.
Vita in cattività e comportamento

L’Ara ararauna è uno dei pappagalli di grossa taglia maggiormente diffuso in cattività. Esistono essenzialmente due tipologie presenti negli ambienti domestici: le coppie riproduttrici e i soggetti allevati artificialmente, detenuti come animali da compagnia.

Il temperamento di questo uccello è pacifico, presentandosi particolarmente adatto alla stretta convivenza con l’uomo in virtù del forte legame che generalmente instaura con il proprietario e della sua innata pigrizia, che consente di allevarlo libero sui trespoli anche per lunghi periodi di tempo nell’arco della giornata senza che dimostri irrequietezza.

Molto docile quando allevato artificialmente, è uno dei pappagalli che maggiormente manifesta la sua spiccata intelligenza, ripetendo il linguaggio umano con facilità. Proprio per queste caratteristiche, però, è un animale molto vulnerabile dal punto di vista psichico, non tardando a manifestare sofferenze psicologiche se qualcosa turba la propria esistenza. Sono animali, quindi, che si legano in modo molto intimo all’essere umano e se non si provvede a mantenere ben saldo questo rapporto gli Ara ararauna sono tra i pappagalli più inclini a manifestare la temuta sindrome da autodeplumazione.

Purtroppo, infatti, non è episodio comune osservare Ara blu e gialla con un bel piumaggio composto, brillante e non martoriato; generalmente, al contrario, è invece particolarmente facile vedere soggetti con il petto deplumato e dall’espressione depressa.
ara1Gli alloggi

Per la sua imponenza l’Ara ararauna è un pappagallo che necessita di ampi spazi, dove poter muoversi liberamente e manifestare tutti i comportamenti tipici della specie.

Per quanto concerne i soggetti domestici le dimensioni delle voliere in cui sono ospitati possono anche essere di dimensioni inferiori, purché si garantisca all’animale una vita prevalentemente libera e a stretto contatto con l’uomo.

I soggetti selvatici e le coppie riproduttrici, invece, richiedo voliere prossime ai dieci/dodici metri di lunghezza, tre/quattro metri di altezza e una profondità tale da essere circa il triplo dell’apertura alare.

Anche se queste dimensioni possono sembrare eccessive, dobbiamo tutti ricordare che l’obiettivo primo di chi vuole allevare uccelli è quello di soddisfare tutte le esigenze psicofisiche che richiedono, poiché è soltanto un uccello psicologicamente appagato e con uno stato di salute ottimale che può donarci il piacere dell’allevamento. Se non abbiamo quindi lo spazio per garantire tutto questo è meglio optare per specie più piccole, a cui garantiremo le condizioni ottimali in modo sicuramente meno impegnativo.

Particolare attenzione va riposta ai materiali costituenti la struttura delle voliere, giacchè il forte becco e la noia che talvolta può investire animali detenuti in cattività, per ottimali che siano le condizioni, possono portare a distruttività della rete e del telaio, danni che non tardano ad essere effettuati.

Da preferire le sistemazioni all’aperto su terra nuda che, come tutti i pappagalli, anche le grandi Ara araraunadimostrano di preferire.
L’alimentazione

Come per la maggior parte dei pappagalli, anche per gli Ara ararauna vale la regola generale che più l’alimentazione è varia e basata su essenze alimentari fresche, più si garantirà un ottimale stato di salute dell’animale, scongiurando patologie legate a squilibri nutrizionali.

Profondamente sbagliata un’alimentazione a base di semi secchi, quali noci, nocciole, arachidi e quant’altro, che porta gli uccelli a gravi patologie a carico del fegato in pochi anni, causandone spesso la morte.

Pasta, riso, mais cotto e pannocchie immature, frutta e verdura in abbondanza, miele, yogurt, formaggi stagionati (tipo grana), frullati di frutta e verdura, polline, frutta esotica particolarmente nutriente (banana, mango ecc…), nonché omogeneizzati a base di carne da miscelare ai frullati di frutta per garantire un ottimale apporto proteico, sono tutti alimenti freschi che devono costituire l’alimentazione dell’Ara ararauna, consentendo un’integrazione con semi e pastoni secchi ma per non più di tre somministrazioni settimanali.
ara4Riproduzione

Nonostante l’imponenza di questi animali, la riproduzione in cattività risulta meno problematica che per altre specie; a dimostrazione di ciò basta notare quanti soggetti sono disponibili nelle realtà commerciali e private.

Una evidenziazione del sesso in questo soggetti attraverso un test molecolare atto ad evidenziare i marker sessuali a livello del DNA è fondamentale per poter avere la garanzia di possedere due soggetti di sesso opposto, dato che l’Ara ararauna è da considerarsi una specie monomorfa, cioè che non manifesta morfologicamente differenze tra il maschio e la femmina.

Depongono le uova in un grosso nido ricavato dal tronco di un albero cavo in natura, ed in cattività occorre necessariamente fornire la stessa condizione, anche presentando un nido in legno delle misure adeguate, un metro di diametro per un metro e più di altezza.

Sconsigliabili bidoni in lamiera e plastica che si usavano un tempo per la riproduzione di questi uccelli, a causa della facilità con cui si surriscaldano durante la stagione estiva.
La cova dura all’incirca 28-30 giorni e il numero delle uova raramente supera le 3/4 unità.
CITES

L’Ara ararauna è soggetto a tutela da parte della Convenzione di Washington e la sua detenzione è autorizzata soltanto per soggetti con anello inamovibile (comprovante la nascita in cattività) e documento CITES d’accompagnamento, che l’allevatore ci fornirà al momento dell’acquisto.

Eventuali nascite, fughe o decessi, nonché cessioni a terzi, vanno comunicate agli uffici del Corpo Forestale di Stato della propria provincia.

Inoltre la detenzione in cattività è regolamentata da specifiche norme delle A.S.L. locali, pertanto se si intende acquistare uno di questi pappagalli è necessario rivolgersi agli uffici veterinari dell’A.S.L. di competenza nella propria città.

Autore: Pierluca Costa, etologo

Pappagallo Cenerino

pappagallo cenerino testa

Classificazione
pappagallo cenerino

 

Classe: Aves

Ordine: Psittaciformes

Famiglia: Psittacidae

Tribù: Psittacini

Genere: Psittacus

 

Specie: P. erithacus

Sottospecie: P. erithacus erithacus

                          

P. erithacus timneh

 

Il cenerino origina dalle foreste pluviali dell’Africa centrale e occidentale. Si nutre di frutta, semi, noci di palma, foglie delle piante. È la sola specie del genere Psittacus; presenta due sottospecie:

P. erithacus erithacusLa sottospecie P. erith

 

acus erithacus ha dimensioni maggiori tra le due (33 cm), ha una colorazione grigia di tonalità più chiara, le penne della coda rosse e il becco completamente nero. I giovani fino ad un anno di età presentano le iridi di colore scuro, che poi diventano giallo chiaro, e fino a 18 mesi di età presentano la punta della coda di un rosso più scuro.

 

P. erithacus timnehLa sottospecie P. erithacus timneh è di dimensioni leggermente inferiori, ha un colore grigio più scuro, la coda marrone e un’area di colore chiaro sulla parte superiore del becco.

Entrambe le sottospecie presentano sulla faccia, intorno agli occhi, un’area di pelle nuda di colore grigio chiaro.

 

Sono state sviluppate diverse mutazioni di colore, tra cui la presenza di una banda rossa sull’addome, la colorazione completamente rossa, la coda bianca, albini, gialli. Non si deve confondere la comparsa di penne rosse causate da problemi di salute (follicoliti, danni epatici, malnutrizione, una malattia virale – PBFD) con una mutazione di colore, come inducono a credere alcuni allevatori o venditori senza scrupoli.

pappagallo cenerino

Longevità

Il cenerino è un pappagallo longevo e, se ben accudito, può arrivare a 65 anni di età.

Distinzione dei sessi

I soggetti adulti presentano lievi differenze morfologiche. Il maschio ha la testa leggermente più grossa e piatta, ed è di 2-3 cm più grande della femmina. Nel maschio l’iride è più rotonda, nella femmina più ellittica. Nella sottospecie P. e. erithacus nel maschio ci sono alcune penne rosse intorno alla cloaca e le ali sono più scure. Poiché queste differenze possono essere molto lievi o incostanti, il metodo più sicuro per stabilire il sesso è tramite l’esame del DNA, che si può eseguire su alcune penne del pappagallo. Se si desidera tenere un cenerino singolo come animale da compagnia, la determinazione del sesso non è essenziale.

Il cenerino come pet

Il cenerino è probabilmente la specie di pappagallo più intelligente, e tra le specie animali in assoluto più intelligenti; questa sua intelligenza eccezionale, paragonabile a quella di un bambino di 2-3 anni, è oggetto di studi numerosi e approfonditi. Si sa che è in grado di associare alle parole che ripete il loro significato e che sa esprimere intere frasi nel giusto contesto di una conversazione, se adeguatamente istruito.

La sua notevole abilità nel ripetere le parole (anche se molto variabile da individuo a individuo) e la capacità di affezionarsi alle persone ne fanno una delle specie di pappagallo più ricercata. I soggetti allevati a mano sono eccezionalmente docili. Tuttavia, proprio per la sua intelligenza, è un animale molto esigente dal punto di vista delle attenzioni e del tempo che gli si può dedicare, e uno dei pappagalli più soggetti a sviluppare problemi comportamentali, come lo strappamento delle penne (sindrome da autodeplumazione).

 

Il cenerino deve poter interagire con il proprietario in modo regolare e poter passare tutti i giorni del tempo fuori dalla gabbia. Non è quindi un pappagallo da acquistare con leggerezza, dal momento che non tutti possono occuparsene in modo tanto assiduo; inoltre non è molto adatto a chi non ha alcuna esperienza nella gestione pappagalli.

 

Il cenerino è in Appendice II del CITES, per cui il prelievo in natura è (teoricamente) strettamente regolamentato. Poiché l’Europa dal 2007 ha proibito l’importazione di uccelli di cattura, tutti i cenerini che si trovano in commercio sono di allevamento. I soggetti di cattura presentavano grossi problemi di adattamento ed erano in genere molto paurosi. I soggetti allevati in cattività al contrario sono molto docili e affettuosi con il proprietario. Dopo la maturità sessuale, il cenerino tende a legarsi in modo esclusivo a una persona e può essere aggressivo con gli altri membri della famiglia, cosa che può rappresentare un grosso problema di gestione.

Gestionepappagallo cenerino

 

I cenerini non presentano particolari difficoltà di gestione, ma richiedono molte attenzioni e tanto tempo da passare interagendo con loro (carezzarli, parlare, giocare). Per la loro intelligenza, si annoiano facilmente andando incontro a problemi comportamentali anche gravi.

I cenerini devono restare confinati dentro la gabbia per meno tempo possibile. Sono preferibili le gabbie che si possono aprire in alto e che hanno un posatoio nella parte più alta, in modo che l’animale interagisca meglio con l’ambiente. La gabbia deve essere più spaziosa possibile, per permettere al pappagallo di muoversi, fare esercizio, contenere diversi posatoi, molti giocattoli sicuri, vari oggetti da esplorare e distruggere con il becco.

I posatoi devono essere in legno naturale, preferibilmente dei rami di diametro variabile, in modo che le zampe possano fare ginnastica. Il diametro deve essere tale da permettere alle dita di circondare il ramo senza che si tocchino.

Il fondo della gabbia può essere ricoperto con fogli di giornale, materiale economico e facile da sostituire. Il cambio deve essere effettuato tutti i giorni. L’igiene della gabbia, dei posatoi e dei recipienti di cibo e acqua è essenziale per la salute dei pappagalli.

La collocazione della gabbia è un fattore importante. I cenerini sono particolarmente esigenti per quanto riguarda il contatto umano e la compagnia, pertanto la sistemazione ideale è in una stanza in cui vi sia la presenza di persone per buona parte del tempo, ad esclusione della cucina perché è un ambiente che può essere pericoloso per gli uccelli in gabbia (per le emissioni delle pentole antiaderenti di teflon, o i vapori dei prodotti per la pulizia del forno, ad esempio). La notte l’ambiente deve essere silenzioso e buio, per consentire ai pappagalli di dormire indisturbati. 10 ore di sonno continuo ogni giorno sono indispensabili per il benessere dei cenerini.

La gabbia deve essere al riparo da correnti d’aria e dalla luce diretta del sole, che può provocare un colpo di calore, e non raggiungibile da potenziali predatori o animali che possono spaventare il cenerino, come cani e gatti.

Igiene

Una buona igiene è fondamentale per la salute dei pappagalli tenuti in cattività. Si deve ricordare che l’uso di disinfettanti è inutile in presenza di residui organici (deiezioni o resti di cibo) che proteggono i microbi dalla loro azione. Pertanto, il modo più efficace di ottenere una buona igiene è l’uso di acqua calda, sapone e spugna per rimuovere tutti i residui strofinando con vigore, seguito poi dall’applicazione del disinfettante e quindi da un risciacquo abbondante.

I fogli del fondo vanno sostituiti tutti i giorni, operazione molto rapida e semplice. I contenitori di cibo e acqua vanno svuotati e lavati con cura tutti i giorni; una volta alla settimana vanno disinfettati. La gabbia intera almeno una volta al mese va svuotata di tutti gli accessori, lavata e disinfettata. Anche i posatoi vanno tenuti sempre ben puliti e disinfettati regolarmente. Come disinfettanti si possono usare varechina diluita o lisoformio.

In libertà

I cenerini hanno bisogno di passare alcune ore fuori dalla gabbia ogni giorno; tuttavia, quando sono lasciati liberi, possono andare incontro a molti pericoli, per la loro natura curiosa e l’abitudine a esplorare gli oggetti con il becco, pertanto è opportuno preparare con attenzione una stanza e non perderli di vista mentre stanno fuori dalla gabbia. Le finestre devono essere chiuse, con i vetri coperti (ad esempio con una tenda) per evitare che l’uccello vi vada a sbattere contro. In alternativa, se ci sono zanzariere si possono abbassare. Anche le porte vanno tenute chiuse. I vari pericoli a cui può andare incontro un pappagallo libero nella stanza sono:

  • annegamento (bacinelle o pentole piene d’acqua)
  • ustioni (caminetti, stufe, fornelli, candele o piastre elettriche accesi)
  • folgorazione (fili elettrici)
  • avvelenamento (sigarette, farmaci, cioccolata, prodotti per la casa, piccoli oggetti di zinco o piombo)

Il taglio delle penne delle ali può servire a limitare l’estensione del volo, ma non va inteso come un modo per impedire al pappagallo di volare. Il taglio delle penne può avere effetti molto dannosi se mal eseguito, sia dal punto di vista dell’incolumità (l’uccello può cadere o sbattere e fratturarsi) che dal punto di vista psicologico (renderlo insicuro). La limitazione del volo va effettuata solo quando il giovane pappagallo ha già imparato a volare correttamente, cosa che lo rende sicuro e fiducioso delle sue capacità. Se gli si tagliano subito le ali, prima che abbia imparato a volare, non imparerà più a farlo correttamente. Il taglio va eseguito in modo graduale, poche penne per volta, in modo che l’uccello impari ad adattarsi alla nuova condizione. Il risultato finale deve essere una limitazione della capacità di volo, mantenendo intatta la capacità di atterrare correttamente. È importante che le prime volte l’operazione sia eseguita con la guida di un veterinario esperto in medicina aviare.

Il taglio delle penne va ripetuto regolarmente dopo ciascuna muta, quando le penne tagliate cadono e vengono rimpiazzate da nuove penne. Occorre fare molta attenzione a non tagliare le penne prima che abbiano completamente terminato la crescita, perché mentre stanno spuntando possiedono nel calamo dei vasi sanguigni che possono sanguinare profusamente.

 Alimentazione

Sorprendentemente, i cenerini possono sopravvivere anche per 15 anni con diete totalmente inadeguate quali le miscele di semi o addirittura con soli semi di girasole, prima di soccombere alle gravi carenze nutrizionali, mentre con un’alimentazione appropriata possono superare i 50 anni di vita.

L’alimentazione ideale è basata sulla somministrazione di pellet di buona qualità (senza conservanti, coloranti o aromi artificiali, preferibilmente biologico), verdure (cotte e crude) e frutta (anche queste se possibile biologiche). I semi vanno somministrati in quantità ridottissima o eliminati del tutto, e non devono comprendere girasole. Altri alimenti consentiti sono pane o pasta integrali, legumi e cereali cotti, piccole quantità di yogurt o fiocchi di latte e uova sode con il guscio. Poiché i cenerini sono predisposti a problemi di carenza di calcio, gli alimenti ricchi di calcio sono particolarmente indicati. L’esposizione regolare alla luce solare diretta (non filtrata dai vetri) permette di sintetizzare la vitamina D, che ha la funzione di far assimilare il calcio dell’alimento.

Alimenti proibiti sono quelli ricchi di grassi e salati, la cioccolata e l’avocado.

Di: Marta Avanzi, Med Vet

Pappagallo Amazzone

pappagallo amazzone

tassonomia Amazzone: fa parte della famiglia Psittacidae del genere Amazona, vi fanno parte circa 30 specie:

 

  1. Amazzone collaria con gola rosa,
  2. Amazzone leucocephala di Cuba,
  3. Amazzone ventralis di Hispaniola,
  4. Amazzone albifrons con la fronte bianca,
  5. Amazzone Xantholora con redini gialle,
  6. Amazzone agilis col becco nero,
  7. Amazzone vittata di Portorico,
  8. Amazzone tucumana di Tucuman,
  9. Amazzone pretrei con gli occhiali rossi,
  10. Amazzone viridigenanis con redini rosse, di esso vi sono tre specie;
  11. Amazzone brasiliensis del Brasile,
  12. Amazzone dufresniana,
  13. Amazzone rhodocorytha con corona rossa,
  14. Amazzone festiva,
  15. Amazzone xanthops con faccia gialla,
  16. Amazzone barbadensis delle Barbados,
  17. Amazzone aestiva con fronte azzurra,
  18. Amazzone auropalliata con la nuca gialla,
  19. Amazzone ochrocephala con fronte gialla,
  20. Amazzone oratrix con testa gialla,
  21. Amazzone amazonica dell’ Amazzonia,
  22. Amazzone mercenaria coricata,
  23. Amazzone kawalli, Amazzone farinosa,
  24. Amazzone vinacea,
  25. Amazzone versicolor di Santa Lucia,
  26. Amazzone arausiaca con collo rosso,
  27. Amazzone guildingii di St. Vincent,
  28. Amazzone imperialis imperiale.

amazzone fronte biancaL’Amazzone a fronte bianca è una delle amazzoni più piccole, vive in natura nel sud America generalmente in mexico e Costa Rica ha una dimensione di circa 27cm hanno una vita molto lunga pensate fino i 40 anni!
Il colore del piumaggio come potete notare è il verde che è il colore predominante su tutte le amazzoni, la fronte ovviamente bianca e la parte superiore della nuca azzurro.
E’ un pappagallo piuttosto rumoroso ma se allevato a mano è un buon parlatore.
Esistono tre sottospecie che si differenziano per dimensione 27.26 e 24 cm, e la differenza che contraddistingue la a. Albifrons albifrons dala Saltuensis consiste nella colorazione dell’azzurro della nuca più esteso.
In Italia ci sono numerose coppie e posso affermare che sono allevate tranquillamente.

Differenze sessuali
Per queste amazzoni la differenza sessuale è evidente, infatti il maschio presenta le ali copritrici primarie rosse, invece nella femmina sono completamente verdi, come potete notare nella fotto in basso.

Vita in Allevamento
Sono animali come già detto piuttosto rumorosi pertanto sconsiglio il loro allevamento in zone ad alta densità di popolazione o dove ci sono vicini che non amano essere disturbati!!
Sono abilit volatiri e consiglio vivamente di fornire una bella voliera ampia e spaziosa io utilizzo voliere da 2 mt x 1 mtx 2 mt di altezza.
Come alimentazione somministro una miscela di sementi apposita per amazzoni dove all’interno sono presenti svariati semi girasole, arachidi. Amano moltissimo la frutta e verdura specialmente il pomodoro.

Riproduzione
Per quanto riguarda la riproduzione posso affermare che è una specie piuttosto prolifica se trova l’ambiente giusto, dove naturalmente sarà poco disturbata.
Uso fornire un nido rettandolare dalla base di 40×40 con una altezza di circa 60cm con foro da 10 cm.
Di norma il periodo riproduttivo va da maggio a settembre ma la mia coppia ad esempio sempre verso metà giugno. Dove depone dalle 2/3 uova e le cova per circa 25 giorni, i piccoli sono pronti all’involo dopo circa 7 settimane.

Allevare il Tacchino

Cennti storici

tacchinoIl primo a parlare del tacchino, nel 1525, fu lo spagnolo Gonzalèz Fernando de Oviedo, governatore di Hispaniola, nel suo “Summario de la Historia Natural de las Indias Occidentales”: lo descrive qui come una varietà del Pavone, con una coda meno grande del Pavone comune e con una carne ancora più saporita.
Proveniente dal Messico, fu introdotto in Spagna intorno al 1520; da qui raggiunse la Francia – dove fu chiamato Pollo d’India (Coq d’Inde, da cui deriva l’attuale Dindon e Dinde) – e poi, in seguito, in tutto il Continente, divenendo sempre più comune.
In Inghilterra comparve per la prima volta sotto il regno di Enrico VIII nel 1524; gli storici di quel tempo, credendo che provenisse dai possedimenti turchi dell’Asia Minore, lo chiamarono Gallo Turco (Turkey-cocks) e, per abbreviazione, Turkey, mantenuto fino ad oggi.
Fernandez, nel suo “Tesoro di cose nella Nuova Spagna” del 1576, già distingue il tacchino domestico da quello selvatico, ed aggiunge che gli spagnoli ed i portoghesi lo chiamavano “Pavones de las Indias”.
Già intorno al 1565, in Francia, in un convento vicino a Bourges i monaci avevano impiantato un allevamento, con soggetti direttamente importati dall’America: si dice anche che il primo tacchino servito a tavola fosse quello delle nozze di Carlo XI con Elisabetta d’Austria il 20 novembre 1570.
La prima descrizione scientifica del tacchino è dovuta al naturalista viaggiatore francese Pierre Gilles, edita a Lione nel 1553; a lui seguirono Pierre Belon, sempre francese, che fornì nella sua “Histoire Naturelles des Oiseaux” (Lione, 1555) il primo disegno del tacchino; indi Gesner da Zurigo ed il nostro grande Ulisse Aldrovandi.

I Tacchini che noi oggi conosciamo derivano tutti dai tacchini selvatici del genere “Meleagris”. Si contano sette sottospecie con caratteristiche più o meno simili che vivevano in un’area molto vasta, dal Canada al Messico.
Ecco cosa diceva Brehm del tacchino selvatico nel suo lavoro “La Vita Degli Animali” (Torino, 1869):

«Il tacchino vive allo stato selvatico anche al giorno d’oggi, è di una grande bellezza e prolifico assai. Era sparso nei piani dell’America del Nord, particolarmente nell’Arkansas, nell’Illinois, l’Alabama, l’Ohio, Kentucky, l’Indiana, il Missouri e il MissisSipi. I grandi branchi condotti da vecchi maschi i quali sono di una meravigliosa vigilanza che temono del continuo l’insidia, che non cercano il cibo se non quando si vedono rimpiazzati da altri vecchi di ugual tempra. Fanno lunghissimi giri di strada a piedi e possono in un giorno fare tanto cammino quanto ne può fare un robusto cane; in caso di bisogno fanno anche forti voli per oltrepassare corsi di acque. Si nutrono di semi, frutti di alberi, ghiande, bacche, insetti, verdure ed ogni sorta di tuberi che trovano. Sono ghiotti specialmente di lumache e di insalate tenere, e sovente fanno indigestioni pel troppo mangiare. Certi scrittori a torto prendono questo animale come prototipo della collera stupida ed inconscia; ma molti altri lo difendono, ed alcuni americani, come Beniamino Franklin, ebbero a proporre agli Stati Uniti che si mettesse nello stemma nazionale l’emblema del Tacchino in luogo della superba e antisociale aquila; mentre il tacchino è di origine essenzialmente americana”.»

Riporto anche integralmente quello che il grande naturalista G. Buffon (1707 – 1788) scriveva, sia per la sua importanza storica che per la sua pittoresca e scrupolosa descrizione:

tacchino«E’ rimarchevole per la grandezza della sua statura come per certe naturali inclinazioni che non gli sono comuni con un piccol numero di altre specie. La sua testa che è molto piccola a proporzione del corpo, è quasi interamente spogliata di piume e solamente coperta, del pari che una parte del collo, di una pelle turchina carica di capezzoli rossi nella parte anteriore del collo e di capezzoli biancastri sulla parte posteriore della testa con alcuni piccioli peli neri sparsi raramente tra i capezzoli e con piume più rare all’alto del collo. Dalla base del collo gli scende sul collo fino ad un terzo circa della sua lunghezza una specie di barba carnosa rossa ondeggiante, composta di una doppia membrana. Sulla base del becco superiore gli si innalza una caruncola carnosa di figura conica e solcata di grinze traversali assai profonde: questa allo stato naturale ha poco più di un pollice, cioè quando il gallo d’India passeggia tranquillamente senza oggetti intorno a lui che lo tormentino; ma se qualche straniero oggetto gli si presenta inaspettatamente, massimo nella stagione degli amori, lascia questo uccello il suo portamento semplice ed umile, si ingalluzza immediatamente con fierezza, la sua testa e il suo collo si gonfiano, la caruncola si spiega, s’allunga e discende due o tre pollici più basso coprendosi il becco interamente; tutte le dette parti carnose si colorano di rosso vivo, nel tempo stesso le piume del collo e del dorso si arruffano, e la coda si alza a guisa di ventaglio, mentre le ali spiegandosi si abbassano fino a trascinarsi a terra.
In tale attitudine or va camminando fieramente intorno alle sue femmine, accompagnando la sua azione con un sordo rumore, prodotta dall’aria del petto che esce pel becco, e che è seguito da un lungo sussurro; ora abbandona la sua femmina come per minacciare quelli che lo turbano; e in tal caso la sua andatura è grave, e soltanto si accelera nel momento in cui fa sentire il rumore suddetto; di tempo in tempo egli interrompe siffatto esercizio per gettare un altro grido più forte, e che gli si può, tante volte, far ripetere quanto si vuole o fischiando o facendogli sentire qualsiasi altro tono acuto; egli ricomincia in seguito a far la ruota, la quale esprima ora il suo amore per la femmina, ed ora la sua collera contro quel che non conosce. Ventotto penne si contano in ciascuna delle ali, e diciotto nella coda; egli ha peraltro due code, l’una superiore e l’altra inferiore, la prima formata come sopra di penne grandi piantate intorno al groppone, è quella che l’animale rialza facendo la ruota, la seconda poi consiste in altre penne men grandi e non l’alza dalla sua situazione orizzontale.
Due attributi sensibili distinguono il maschio dalla femmina; un mazzetto cioè di crini duri e neri, lungo da 5 a 6 pollici, che gli esce quando è adulto dalla parte inferiore del collo, e l’altro che è uno sperone cha ha a ciascun piede, che è più o meno lungo, ma più corto e spuntato che quel del gallo ordinario. La gallina d’India è diversa dal maschio non solo per gli attributi suddetti, per la caruncola del becco superiore più corta ed incapace di allungarsi e pel rosso più pallido della barba carnosa e della barba glandulosa che le copre la testa, ma eziandio per gli attributi propri del sesso, essendo più piccola, avendo una fisionomia meno caratteristica, con men di forza nell’interno, e men d’azione all’esterno: di più il suo grido non è che un accento lamentevole, i suoi movimenti non sono che per cercare il nutrimento o per fuggire il pericolo; finalmente è priva della facoltà di far la ruota, non già perché non abbia la coda doppia, ma perché manca dei muscoli atti a levare e raddrizzare le penne più grandi (in questo devo purtroppo smentire il Buffon in quanto, come abbiamo detto, anche la femmina saltuariamente fa la ruota, ndr).
Un maschio può avere cinque o sei femmina, ove sianvi più maschi, si fanno fra loro la guerra battendosi, non però col furore dei galli ordinari. La femmina non è così feconda coma la gallina ordinaria, non fa essa le uova che una volta all’anno per quindici giorni circa, il suo accoppiamento col maschio non è così breve come quello del gallo, appena ha terminato di far l’uovo che si mette tosto a covare; cova pure le uova di ogni sorta di uccello, basta che abbia il nido in luogo asciutto e nascosto, vi si abbandona ella a questa occupazione con tanto ardore ed assiduità che morrebbe di inazione sulle sue uova se non si avesse la cura di levarla una volta al giorno per darle da bere e da mangiare.
Quando il maschio vede a covare la sua femmina cerca di rompervi le uova, riguardandole forse come un ostacolo ai suoi piaceri, il perché essa si nasconde allora con tanta cura. Finito il tempo in cui debbono schiudersi tali uova, i pulcino battono col becco il guscio dell’uovo che li chiude; talvolta ancora per essere il guscio troppo duro, vengono aiutati a romperlo, il che si fa con molta circospezione. Appena schiusi dal guscio, hanno questi pulcini la testa coperta di una specie di lanugine, e non hanno ancora né carne glandulosa, né barba carnosa, parti che si sviluppano in capo a sei settimane o due mesi. La madre li guida con la stessa sollecitudine onde la gallina conduce i suoi; essa li riscalda sotto le proprie ali col medesimo affetto e li difende collo stesso coraggio. Quando questi sono divenuti forti, lasciano la loro madre, o piuttosto ne sono abbandonati, amano andare a pollaio in aria libera, e passano così le notti più fredde dell’inverno or sostenendosi sopra un sol piede, ritirando l’altro nelle piume del loro ventre come per riscaldarlo, ora al contrario annicchiandosi in equilibrio sul lor bastone, per dormire, mettendosi la lor testa sotto l’ala, e durante il loro sonno hanno il moto della respirazione sensibile e notabilissimo. Essi hanno diversi toni e differenti inflessioni di voce secondo l’età e il sesso e secondo le passioni che vogliono esprimere. La loro andatura è lenta e il loro volo pesante, bevono, mangiano ed inghiottiscono dei piccoli sassolini digerendo presso a poco come i galli. Se credesi ai viaggiatori, sono essi originari dell’America e delle isole adiacenti e prima della scoperta di quel nuovo continente essi pure non esistevano nell’antico.
I galli d’India selvaggi non sono differenti dai domestici se non perché sono molto più grossi e più neri, del resto essi hanno gli stessi costumi, le stesse naturali inclinazioni, e la medesima stupidità; vanno a pollaio nei boschi sui rami secchi e quando se ne fa cadere qualcuno a colpi di fucile, gli altri se ne restano al lor sito, e non ne vola via neppure uno.
Ha questi la carne più dura, e se ne allevano facilmente dovunque trovansi nei parchi e nei boschetti.»

Oggi il Tacchino allo stato selvatico, a causa della caccia di cui è stato oggetto, è diventato molto più raro, anche se si sono tentate reintroduzioni, alcune delle quali andate a buon fine.
I Meleagridi sono i più grandi galliformi oggi esistenti.

Molteplici sono le denominazioni volgari con cui esso è stato ed è chiamato; eccone alcune, tratte da una lista ben più lunga riportata nel libro di Savorelli:
– Piemonte: Pitu/Pita, ma anche Biru e Bira come pure Dindi e Dinda o Bibin e Bibina.
– Veneto: Dindio/Dindia
– Brianza: Polin e Pola
– Crema: Pulù/Pola
– Ravenna: Tachèn e Tachena
– Toscana: Lucio o Tacco
– Arezzo: Billo/Billa
– Roma: Gallinaccio
– Cagliari: Dindu e Piocce
– Messina: Ciurro e Gaddu d’India

Allevamento

tacchinoocellatoNon è molto sviluppato in Italia; peccato, perché è un animale molto bello e per le nostre campagne lo trovo molto più indicato del Pavone.
Devo però riconoscere che solo chi ha grandi spazi può permettersi l’allevamento del tacchino, che necessita infatti di pascolare: un tacchino in un pollaio non è bello da vedere.

Anche se il tacchino domestico è meno battagliero del selvatico, è bene comunque non tenere più di un maschio nel periodo della riproduzione: si disturberebbero a vicenda e non dimostrerebbero alle femmine il dovuto riguardo.
Il gruppo riproduttore potrà essere formato da un giovane maschio e tre o quattro femmine di almeno due anni.
E’ la femmina che decide quando accoppiarsi: il maschio non deve fare altro che essere pronto, e lo dimostra facendo sempre la ruota.
E’ sufficiente un accoppiamento andato a buon fine perché tutte le uova che la femmina deporrà, prima di iniziare la cova, risultino fecondate.
L’inizio della deposizione è la primavera: molte femmine però iniziano anche nel mese di febbraio.
L’incubazione dura 28/30 giorni.

OLYMPUS DIGITAL CAMERALa tacchina è una covatrice e madre eccezionale che può portare a termine più covate in una sola stagione; per questa sua dedizione è sfruttata come “incubatrice” naturale: non è comunque bene approfittarne troppo, per lei è sempre uno stress; assicurarsi giornalmente che sia uscita dal nido e si sia rifocillata; anche un buon bagno di sabbia sarebbe l’ideale per dargli sollievo e disfarsi di un po’ di parassiti.
Spesso è restìa ad allontanarsi dal nido; con alcune, dopo averle messe fuori, dovevo chiudere la porta per garantire almeno 15 minuti d’aria.

Quando allevavo il Tacchino Crollwitz facevo fare alle mie femmine una sola covata; mi davano soggetti sufficienti, e devo dire che avere un gruppo di più di 20 tacchini non è una cosa semplice da gestire: orto devastato, vasi in continuo pericolo, tetti presi d’assalto con i conseguenti danni alle tegole, ecc.

E’ preferibile che sia la tacchina stessa a fare da madre perché, se allevati sotto lampade, può succedere che i tacchinotti abbiano difficoltà ad iniziare a nutrirsi.
Se poi la stagione è asciutta si possono far uscire prima, approfittando delle giornate di sole – necessario per lo sviluppo scheletrico – e per farli cominciare fin da piccoli a mangiare sassolini, erba e insetti, tanto utili al loro sviluppo.
Nei primi due/tre mesi comunque è bene somministrare una miscela con una dose proteica del 28% e con coccidiostatico per prevenire brutte epidemie.
A tre mesi effettuare due sverminazioni a distanza di 15 giorni l’una dall’altra.
Hanno bisogno di molta verdura, frutta e di tanto spazio a loro disposizione con tanto verde.
Personalmente non ho mai riscontrato la fatidica “crisi del rosso” o “crisi del corallo”: in queste condizioni i miei tacchini sono sempre cresciuti velocemente e in salute.

 

Oca romagnola

oche bianche e grigieOrigine, diffusione e caratteristiche economiche

Razza italiana originaria dell’Emilia-Romagna (province Ravenna, Forlì, Bologna e Ferrara). L’attuale Standard Italiano Razze Avicole (1996) propone come nuova denominazione il termine di “Oca Italiana“.
L’ oca di Romagna o romagnola, è meglio conosciuta in tutto il mondo col nome di oca di Roma affibiatole dagli avicoltori spagnoli di Barcellona, quando la nostra razza venne presentata in quella città ad una esposizione mondiale nel maggio del 1924. In quell’occasione i visitatori si domandarono se la romagnola appartenesse alla razza che salvò il Campidoglio dalle truppe galliche di Brenno nel lontano 382 a.C. La questione probabilmente non sarà mai chiarita perché Lucrezio sostiene che quelle oche erano bianche, mentre Virgilio le definì argentate… Ma con lo scorrere dei secoli il piumaggio potrebbe aver subito variazioni. Certo è che le oche romagnole possiedono una voce assai acuta e stridula, diversamente dal tono borbottante delle Tolosa, per esempio… Comunque sia, le nostre candide oche romagnole sono sicuramente tra le razze più antiche al mondo… Tra l’altro è la razza più feconda e ovaiola tra le oche (110/115 uova l’anno, dal peso minimo di 150 grammi). Inoltre il suo piumino è tra i più apprezzati e la sua carne è ottima!
In Italia vi sono tre razze tra cui la pezzata veneta che non possiede però ancora uno standard preciso. C’è la grigia padovana, di media taglia, molto apprezzata anch’essa! Ma è la romagnola che detiene il primato tra le tre e soprattutto nel mondo per la sua numerosa deposizione di uova! L’oca di Roma ha una variante col ciuffo sul capo (tuffed roman goose) che viene meticolosamente selezionata negli Stati Uniti d’America.
Peccato si allevi poco qui in Italia e che la selezione in questo campo, non sia ancora così curata come negli altri Stati altrimenti la fama della romagnola potrebbe ritrovare il plauso che le fu riservato lo scorso secolo in tutta Europa e in Inghilterra.

Caratteristiche morfologiche

oca romagnolaTaglia: piccola.
Peso medio:

– maschio a. 5-6 kg
– femmina a. 4-5 kg

Mantello bianco. Becco largo, forte, attaccato alto, arancione con unghia carne.
Zampe mediamente lunghe, color arancio intenso. Occhi azzurri con caruncola oculare rossa.
Non possiede alcun sacco ventrale.
L’oca Romagnola di pura razza ha la particolarità, alla pari dell’oca di Embden, di essere autosessabile alla nascita: i paperi nascono con macchie brune sulla testa e sul dorso e queste macchie sono decisamente più scure nelle femmine.

fonte: agraria.it

Allevare le oche

ocheOrigini

L’allevamento dell’oca è antichissimo, molto anteriore a quello dell’anatra. Se ne trova traccia 4000 anni a.C. nella tomba del faraone Tè (V° dinastia), nella metropoli di Menfi. In essa è dimostrata l’avvenuta domesticazione, in quanto sono raffigurate, oche in un cortile insieme a gru e colombi, con sotto l’iscrizione: «La riunione dei colombi e delle oche dopo che essi hanno mangiato.»
Omero ne parla nell’Odissea, allo XV° canto, in cui è citata Elena che alleva oche nella corte del palazzo di Menelao ed al canto XIX°, quando Penelope, raccontando un sogno, parla del suo allevamento di oche.
I poeti greci si ispirarono al candore dell’oca e la paragonarono alla grazia e alla bellezza delle giovani fanciulle.

Ha oltretutto innumerevoli antenati famosi:
L’oca sacra di Augusto: abbandonata fra le braccia di sua moglie Livia dall’aquila cara a Giove, fu ritenuta un dono degli dei e pertanto consacrata.
Le consorelle del Campidoglio, allevate nel tempio di Giunone, che col loro sberciare avvertirono dell’arrivo dei barbari di Brenno.
L’oca di Friburgo, immortalata con un monumento, che, con la sua sensibilità, durante la seconda guerra mondiale funzionava da radar, avvertendo gli abitanti dell’arrivo degli aerei nemici.

Viene da pensare che mai più ingiuste furono espressioni come: “Stupido come un’oca” o “Essere un’oca giuliva”.
Il secondo può andare, se non viene inteso in senso dispregiativo, in quanto l’oca è gaia e festosa e saprebbe godersi la vita se l’uomo gliene desse l’opportunità.

La capostipite dell’oca domestica la troviamo nella famiglia degli Anatidi nell’ordine Anseriformi: l’Oca Selvatica Grigia (anser cinereus).
È una delle oche selvatiche più grandi, pur mantenendo una forma molto aerodinamica, ha un peso di circa kg. 3,5 ed un’apertura alare di 180 cm.Il becco è grosso e robusto, alla base è più alto che largo, di colore arancio intenso con unghiata rosea; esso è provvisto, ai margini, di lamine cornee che servono a strappare, triturare e spesso filtrare gli alimenti che l’oca trova sondando il fondo degli stagni.
Ha comunque un menu esclusivamente vegetale: erbe, semi, tuberi, bacche e frutta.
La testa è piccola, in proporzione al corpo. Il collo è lungo e fine. Le lunghe ali stanno aderenti e, quando sono chiuse, raggiungono l’estremità della coda senza però incrociarsi o sorpassarla.
I tarsi sono rosei e robusti.
Come tutte le oche selvatiche porta a termine una sola covata l’anno, covando, per 28/29 giorni, 5/6 uova al massimo.
Ha una colorazione particolare, che ritroviamo in molte razze di oche domestiche.
Il colore di fondo è un grigio brunastro uniforme ed il margine delle penne è orlato di bianco. Bianco nella parte bassa del petto, ventre castano con macchie di tonalità più intensa. La coda è come il resto del piumaggio.

Allevamento

accrescimento ocaIn Romagna l’oca era altamente considerata, si diceva che, quando venne sparso nel Mondo il sale del giudizio, tre parti di questo furono assorbite dalle oche; il resto venne assimilato dagli uomini.
Definita il “maiale dei poveri”, in tempi in cui era difficile vivere, lei dava uova, piumino e ottima carne con pochissima spesa; anche la pelle veniva usata e, dopo essere stata sapientemente conciata, serviva per confezionare candide pellicce.

Le nostre oche domestiche assomigliano molto all’Oca selvatica grigia, anche se hanno un aspetto più pesante; la distinzione del sesso non è facile, perché nei due sessi la colorazione è identica; solo in età adulta, in alcune razze, il maschio è riconoscibile perché più grosso.
Nel recente passato il suo allevamento era molto sviluppato, specialmente nell’Emilia Romagna e Veneto.

Allevare oche non richiede molto, è sufficiente un prato per il pascolo, più o meno ampio a seconda del numero dei soggetti che si vogliono tenere, e acqua, anche poca, perché l’oca non è come l’anatra, ama soprattutto pascolare. I tarsi, situati al centro del corpo, sono molto più lunghi di quelli delle anatre, questa particolarità conferisce loro un passo più sicuro.
Se dispongono di sufficiente alimento verde sarà sufficiente, ogni tanto, un pastone di pane, cruschello di frumento e farina di granoturco oltre ad un po’ di grani, niente di più.
Ho letto, in un vecchio libro, che in Pomerania Occidentale – Regione a nord est della Germania da cui proviene l’omonima razza e dove fino alla metà del secolo scorso l’allevamento era particolarmente sviluppato – un ragazzo, al mattino, passando nei pressi dei villaggi suonava a distesa un corno e, da ogni casolare, uscivano branchi di oche che il ragazzo stesso conduceva al pascolo, come un gregge di pecore. Alla sera le oche rientravano al Paese e ciascun gruppo ritrovava la propria casa.Un agricoltore, mio vicino, ha un bellissimo gruppo di oche bianche, sempre immacolate nonostante stiano tutto il giorno nei campi; molto indipendenti, le trovo addirittura sulla strada a più di un chilometro di distanza dai loro prati, sempre tranquille e con aria indolente, senza fretta e senza paura, si spostano, quando passo in macchina, quando sono a piedi allungano il collo e sembra mi redarguiscano con il loro verso per averle disturbate.
Quando non le vedo le cerco con lo sguardo e spesso le intravedo in fondo al prato nel ruscello e mi viene da pensare: che bella vita fanno!Intorno all’età di sei mesi, a seconda della razza, le femmine iniziano a deporre, ma è bene per la riproduzione usare soggetti di almeno un anno compiuto. Un’oca può dare buoni risultati fino ai 4/5 anni; dopo, la fertilità ed il numero di uova calano.

morfologia ocaIl gruppo ideale è formato da un maschio e tre femmine ed è bene che siano soggetti della stessa età, specialmente le femmine, altrimenti il maschio tende a preferire la più giovane (però!!) snobbando le altre. Mai il gruppo deve avere due maschi, si disturberebbero a vicenda.

La scelta dei riproduttori va fatta standard alla mano e non si deve incorrere nell’errore: più grosse più belle. A parte la fecondità, che non è compatibile con la grossezza, lo Standard va anche seguito per la mole.Le nostre oche un tempo erano riconosciute come eccezionali produttrici di uova e carne prelibata, ma erano anche apprezzate per la loro robustezza e facilità di allevamento; per queste loro doti furono esportate in tutta Europa. Sono sicuro che molte razze oggi esistenti in altri Paesi hanno il sangue delle oche italiane.

Sul libro Standard inglese, con prima edizione datata 1956, si legge:
«Non ci sono dubbi che, in Germania ed Olanda del nord, fu usata l’oca bianca italiana per creare la Embden, incrociandola con le loro indigene bianche.»

Oggi l’Oca non è più allevata come una volta e quei pochi soggetti che si vedono provengono dai tanti mercati di provincia, dove parole come morfologia, colorazione, disegno o produzione hanno poca importanza, ma agli inizi del secolo scorso, fino ad oltre la metà, l’oca faceva parte di quel patrimonio avicolo da conservare gelosamente nelle sue caratteristiche morfologiche di colorazione e di produzione.
La selezione, volta nel tempo a migliorare la produzione o l’aspetto, ha fatto sì che si creassero varietà con caratteri stabili dovuti anche al rapporto con l’ambiente e, quindi, al clima ed alla nutrizione.

fonte: www.fiav.info