Cani Pertiatzu e Cani de lèpuri – Dogo sardo e Levriero sardo

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Per la guerra libica

Sardimastini di gran possa, voci
Nell’ombra formidabili, mastini
Di quel buon sangueantico , che gli atroci
Padri aizzaron contro i legionari:
Alani d’Orzulè, barbaricini
Doghi cogitabondi sanguinari:

Cani di Fonni , vigili sui monti
Deserti> al passo dei rapinatori :
Pugnacerazza implacabile, pronti
Sempre all’assalto…

Sebastiano Satta 1912

Storia

Porto di Cagliari, cani in partenza per la guerra in Libia, 1911
Porto di Cagliari, cani in partenza per la guerra in Libia, 1911

La Sardegna è una terra di misteri e particolarità, il fatto di essere un’isola ha da sempre condizionato la nostra fauna, la nostra flora, il nostro popolo e tutti gli animali domestici che nel corso dei millenni abbiamo selezionato e adattato ai nostri bisogni e alle caratteristiche della nostra terra.
Dalla notte dei tempi abbiamo un cane che ci ha aiutato nelle funzioni più diverse, da guardiano dell’ovile e della proprietà, al recupero dei bovini allevati allo stato brado, alla caccia grossa al cinghiale e agli ungulati e uno estremamente specializzato nella caccia a vista, su cani de lèpuri o cane curridore, il levriero sardo.
Le origini sono misteriose ma è praticamente certo che il molosso sardo, su cani pertiatzu, chiamato anche dogo sardo e su cani de lèpuri, hanno origini molto remote.
Nel corso dei secoli li ritroviamo citati più volte; nel medio evo il dogo sardo veniva chiamato giàgaru, nome che tuttora esiste come derivato nel verbo sardo agiagarai, ovvero aizzare i cani. Ritroviamo il nome giàgaru in sa Carta de Logu, dove il suo furto veniva punito con una multa. In parecchi arazzi e stemmi di famiglia troviamo il levriero sardo.
Il dogo sardo è stato utilizzato contro il tentativo di invasione da parte dei francesi nel 1793, in quella che ancora oggi viene chiamata saBatalla de is Argiolas (ovvero la battaglia delle aie, località di Quartu), dove i molossi vennero aizzati nella notte contro i soldati francesi accampati fra le dune del Poetto, che, presi alla sprovvista, vennero letteralmente dilaniati dai cani sardi, che li fecero fuggire in mare disordinatamente. Nella stessa battaglia furono utilizzati levrieri sardi e i famosi “alani ogliastrini”, ovvero l’incrocio fra doghi sardi e levrieri.
Il dogo sardo lo ritroviamo nella guerra di Libia del 1912, arruolato in gran numero come ausiliario in battaglia; una celeberrima e chiarissima fotografia dell’epoca, dimostra, come gli esemplari fotografati in partenza dal porto di Cagliari alla volta della Libia, abbiano il pelo corto, fulvo o tigrato e caratteristiche molossoidi.
Il declino del molosso inizia con la Seconda Guerra Mondiale, con la depredazione degli esemplari più belli da parte dei soldati tedeschi in fuga. Dal dopoguerra il cambiamento graduale degli stili di vita e l’arrivo delle nuove razze considerate (erroneamente) “migliori” e le nuove malattie per le quali i nostri cani non avevano le adeguate difese, il cani pertiatzu venne messo da parte, relegandolo alla memoria degli anziani, che ancora si ricordano il valore di questa razza. Per il levriero sardo il declino comincia con la proibizione della caccia con i levrieri, riducendo il suo numero a pochi esemplari.

Riscoperta delle razze

In tutta Europa negli ultimi decenni c’è stata la riscoperta delle originalità locali, dalle lingue poco diffuse (lesser used languages), alle tradizioni, alle razze domestiche autoctone, alla storia.
Nemmeno la Sardegna è rimasta indenne e grazie all’impegno di studiosi di cinofilia e storia, mossi da una grande passione e molto coraggio, alla pubblicità data da importanti articoli scritti in riviste locali e alla pubblicazione del libro primo libro interamente dedicato alle razze canine sarde, “Canis Gherradoris” del dott. Roberto Balia, finalmente sia il dogo sardo che il levriero sardo stanno uscendo dall’oblio, dopo che qualcuno aveva frettolosamente dichiarato la loro estinzione.
I nostri cani invece erano li, non si erano estinti, magari trascurati e ridotti a pochi esemplari, ma ancora vivi; il paese dove senza ombra di dubbio c’è il maggior numero di molossi sardi di grande qualità è Gavoi, dove su cani pertiatzu viene chiamato su trìghinu, e viene allevato con molta cura; nuclei sparsi si possono trovare anche in Ogliastra, Barbagia, Nurra. I levrieri si possono ancora facilmente vedere nelle campagne di Ploaghe e Ozieri, ma qualche gruppetto anche nel nuorese.

Scheda cani pertiatzu – dogo sardo

Origine: Sardìngia/Sardegna (Italia)
Classificazione FCI: Razza non riconosciuta

dogo sardo

Aspetto generale

Tipico molossoide leggero, testa quadrata e muso corto che a volte può essere anche a forma di tronco di cono, con presenza di masseteri ben sviluppati. Essendo una razza da lavoro la sua selezione è stata basata sull’utilità del cane, per questo oggi esiste una grande varietà fenotipica, però riconducibile sempre al molosso leggero.

Caratteristiche morfologiche

La taglia può variare molto da esemplare a esemplare e da linea a linea, ma mediamente è alto al garrese (che ricordiamo essere più basso della groppa) dai 55 cm ai 65 cm per 30-45 kg, ha il pelo corto (ma non raso o peggio ancora lucido come il boxer, mentre i cani con pelo arruffato o cinghialesco tradiscono incroci con il cane fonnese) fulvo in varie tonalità, frumentino (colore raro considerato molto tipico e antico), tigrato in varie tonalità, raro il nero e il grigio. I muscoli masseteri devono essere prominenti e la dentuatura a forbice o tenaglia. Brachicefalo, ha l’apofisi occipitale molto pronunciata.

Attitudini e carattere

Ottimo cane da guardia veniva e viene utilizzato nelle battute di caccia grossa come cane da presa. Eccellente come cane per recuperare i bovini semi-selvatici sardi, allevati allo stato brado in montagna.

Standard

Non esiste uno standard.

Progetto di recupero

Agli inizi del 2000 lo studioso esperto cinofilo Roberto Balia ha iniziato a scrivere i risultati di anni e anni di studi nelle nostre campagne alla ricerca del dogo sardo (ma non solo, anche il cane fonnese, il levriero sardo e il volpino sardo). Numerosi articoli di qualità sui maggiori quotidiani sardi hanno fatto rinascere l’interesse su questa razza e tanti esemplari sono stati messi a disposizione per iniziare una selezione seria ed accurata e per scongiurare il pericolo di meticciamento sempre in agguato, vista la presenza di boxer e pit bull. Il punto di svolta nel processo di recupero è stata la pubblicazione nel 2005 del libro “Canis Gherradoris”, sempre di Roberto Balia.
Ad oggi si può dire che la razza, benchè rara, non sia più in rischio di estinzione.

Scheda cani de lèpuri – levriero sardo

Origine: Sardìngia/Sardegna (Italia)
Classificazione FCI: Razza non riconosciuta

levriero sardo

Aspetto generale

È un levriero rustico di media grandezza perfetto per la caccia, la dura selezione ha forgiato un cane eccezionale fisicamente e nella resistenza. Ha un fisico asciutto e muscoloso.

Caratteristiche morfologiche

L’altezza media al garrese va dai 60 cm ai 70 cm per 17-25 kg. Ha una testa piccola con muso lungo quasi il doppio della lunghezza del cranio, ha occhi grandi e naso prominente. Le orecchie possono essere a rosetta o completamente erette. La dentatura è solitamente impressionante con canini molto sviluppati (caratteristica comune anche alle altre razze sarde). Il pelo è raso o corto, morbido al tatto, e può essere color sabbia (molto comune e apprezzato), nero, pezzato, bianco, tigrato in varie tonalità e grigio.

Attitudini e carattere

Perfetto cane da caccia, ha un istinto predatorio sviluppatissimo. Benchè il carattere sia dolcissimo rimane riservato e molto indipendente per certi versi rimane selvatico.

Standard

Non esiste uno standard.

Situazione attuale

Il numero degli esemplari è davvero esiguo, si sta iniziando un disperato tentativo di recupero.

Pietro Perra

Pietro Perra è un appassionato cinofilo, impegnato già dalla metà degli anni novanta nella ricerca e studio delle razze canine sarde autoctone da una decina di anni possiede e alleva doghi sardi e levrieri sardi.

Dogo Sardo o Dogo Sardesco

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Un animale quasi estinto, probabile discendente dei cani portati in Sardegna con la migrazione caucasica, pastore, cacciatore formidabile, spietato guerriero nelle colonie.

dogosardoreducida2-viDa qualche anno va di moda riscoprire razze dimenticate. Anch’io sono sono stato colpito da questa sindrome dopo che, per caso, mi fu donato un cucciolo che in effetti somigliava più ad un bastardino che ad un nobile Cane di Fonni: ho quindi contribuito, assieme ad altre persone (Marco Zedda, Giorgio Zara e Raffaele Maioccu), a costituire un’associazione, con sede in Fonni, che ha come scopo principale la valorizzazione ed il riconoscimento dell’omonima popolazione canina.
Nell’articolo Considerazioni sul cane di Fonni, pubblicato nella rivista “Notiziario Forestale”, n. 19 del mese di Aprile 2002, ho scritto di questo animale e di quello che oggi ritengo sia un suo progenitore, il Dogo Sardo o Dogo Sardesco, un animale sicuramente più raro del primo che sopravvive in Sardegna (perché quasi estinto) in relativa purezza, con pochissimi esemplari grazie alla passione ed alla tenacia di alcuni allevatori.
Identifico il Dogo Sardesco con su Cani Pertiatzu, il cane tigrato per antonomasia – dal petto ampio e dai posteriori stretti – comune in tutta la Sardegna sino alla seconda metà del secolo scorso. Oggi ancora di taglia medio-grande, questo bellissimo cane tigrato veniva un tempo considerato il miglior cacciatore ed il guardiano perfetto, intelligente, intrepido ed affidabile, di buon temperamento anche se reattivo.
dogo sardoLo stesso aggettivo sardo pertiatzu è derivato da questo cane e dalla sua indole, apprezzata unanimamente: il termine è riferibile al mantello tigrato del cane caratterizzato dalle pértias, strisce formate da peli di colore chiaro o scuro che attraversano tutto il corpo dell’animale, con esclusione a volte della testa caratterizzata dalla così detta maschera facciale nera. Un mantello simile a quello dei piccoli bovini, anch’essi oggi rarissimi, sui quali vigilava questo mitico ed antico cane. Il termine pertiatzu viene tuttora usato in Sardegna per indicare una persona autorevole o un balente, uno tosto, oppure chi è testardo o è considerato un poco di buono, a seconda dei frangenti: colui nei confronti del quale bisogna tenere un comportamento adeguato. Non sempre chi utilizza questo aggettivo, riferendosi alle persone, ne conosce il reale significato.
Il cane sardo tigrato era in origine un animale di taglia grande, robusto, rustico e frugale. Le sue doti e la sua preziosità facevano sì che fosse presente in tutti i medaus (stazzi) della Sardegna, impiegato soprattutto come cane da guardia e come conduttore del bestiame bovino (per questo era anche chiamato su cani de is bracaxius antigus, il cane degli antichi mandriani). Le tracce lasciate da questo animale sono ancora presenti in quasi tutta la Sardegna.
canispertiatzus3Nel Sulcis sopravvivono rari esemplari, molto imbastarditi, del peso di circa venti-venticinque chilogrammi, così come in alcune aree della Barbagia lo stesso animale, più robusto e dalle caratteristiche di un cane da presa di tipo levrieroide (graioide) o anche lupo-mastinoide, viene chiamato Trighinu o Tigrinu (Gavoi) oppure Sorgolinu (Orgosolo e Mamoiada).
Nelle Baronie, in Supramonte ed in Ogliastra vivono i migliori esemplari tipici molossi quadrati nel corpo, dal pelo corto o cortissimo (quasi raso) provvisto di abbondante sottopelo e dai masseteri (muscoli della bocca che danno forza alla presa) incredibilmente sviluppati.
Un esemplare monitorato a Dorgali somiglia in modo impressionante ad un Pitbull gigante, del peso di oltre quaranta chili, mentre altri animali (Lula, Orosei) hanno il fenotipo del cane corso rustico, del quale risultano leggermente più leggeri e agili. Anche nel Goceano alcuni animali sono stati descritti come degli enormi Pitbull tigrati. Questa regione della Sardegna è oggi sicuramente una delle aree più interessanti: lì portano tutte le strade della ricerca ed in origine doveva esservi veramente numeroso.
L’animale viene spesso impropriamente chiamato Cane di Fonni. Sono conosciute nascite di Dogo Sardesco da questa popolazione canina, soprattutto da esemplari della linea Cussuggia: un gene recessivo che testimonia l’influsso di questa antichissima razza sull’animale che da poco più di un secolo a questa parte viene accomunato al paese di Fonni.
La descrizione del Cane di Fonni fatta nel 1899 da Giovanni Valtàn nella pubblicazione “In Sardegna” conferma questa ipotesi: “grossi alani robustissimi e d’una ferocia inaudita la loro forza è tale che permette loro di arrestare un bue od un cavallo afferrando coi denti la capezza o addentandoli per l’orecchio ( ) sono ottimi cani da guardia ma troppo pericolosi ( ) devono stare sempre legati ( che se per disgrazia la catena si spezza, saltano alla gola del malcapitato ( ) la loro mole è considerevole, hanno il corpo tozzo, il muso largo, dalle robuste mascelle, le orecchie piccole ed erette, le zampe muscolose, il petto ed il collo larghi e leonini, la coda corta ( ) il manto fulvo dal pelo fitto e corto e lo sguardo fiero e molto intelligente”.
canispertiatzusUna descrizione che onestamente rispecchia poco lo standard attuale del Fonnese (considerato dai più uno strano spinone) e che fa pensare ad interventi di selezione o di imbastardimento successivi all’anno 1899, data della descrizione fattane dal Valtàn. Uipotesi attuale, che affascina non solo il sottoscritto, è quella che ritiene effettivamente molto probabile la discendenza del cane di Fonni dal Dogo Sardo, quest’ultimo identificato nel passato anche nel Cane di Bonorva, oggi dato per estinto, descritto dal Cav. Salvatore Saba (Itinerario-Guida Storico-Statistico dell’Isola di Sardegna) come un mastino abilissimo che aiutava il proprio padrone nella cattura dei bovini allevati allo stato brado inseguendo, affrontando ed arrestando tori indomiti addentandoli alle narici.
Ipotesi avvalorata anche dal fatto che Emanuele Domenech, nella pubblicazione Pastori e Banditi, considera il Fonnese una variante feroce del cane di Bonorva: “( … ) si alleva la miglior razza, o per meglio dire, la più feroce, di cani sardi di cui ho già parlato in un capitolo precedente ( … ) la loro educazione consiste del resto nell’affamarli e di tanto in tanto avventarli contro un fantoccio cui attaccano al collo una vescica piena di sangue qualche volta i montanari di Fonni si liberano, con questi cani, d’un nemico che non vogliono uccidere né col ferro né col fuoco”.
Una parentesi per dire che relativamente al Cane di Fonni oramai si sa abbastanza: gli attuali Fonnesi deriverebbero da due linee di sangue originarie, Cussuggia e Addai, i primi sicuramente con standard molossoide, i secondi lupo-mastinoide ed anche lupo-graioide; è conosciuto infatti un modello più leggero di Fonnese che in passato veniva utilizzato esclusivamente nella caccia.
La loro stessa origine appare sempre più chiara: incroci ripetuti tra molosso e levriero, sino all’attuale eccesso di consanguineità (nel paese di Fonni vengono segnalati sia la scomparsa del mantello tigrato che una preoccupante sterilità degli animali).
E’ discussa invece l’ipotesi mitica della sua derivazione dal molosso romano utilizzato nell’anno 231 a.C. dal console M. Pomponio Mathone per stanare i sardi ribelli, anche perché entrambe le razze erano già presenti in Sardegna prima dell’arrivo romano: un esempio ne sono le terrecotte figurate rinvenute a Santa Gilla negli anni 1891 e 1892 (Moscati) ed i numerosi reperti bronzei del Museo Nazionale di Cagliari (gli animali raffigurati su una navicella sono i cani da combattimento che gli audaci Shardana impiegavano nelle loro imprese guerriere?).
Risulta inoltre che i romani abbiano utilizzato nella frenetica ricerca del ribelle sardo-mastrucato-bardanico nascosto nei rifugi interrati (probabilmente non troppo distanti dagli accampamenti romani), cani segugi e non molossi: la definizione sagaces canes, tramandataci dalla storia, significa appunto questo. Ma ciò che ancor di più risulta interessante è ipotizzare che il Dogo Sardesco sia il diretto discendente del molosso portato al seguito della migrazione di popolazioni caucasiche in Sardegna. Questa migrazione, avvenuta circa novemila anni orsono, è oggi sempre più alla ribalta grazie a recenti pubblicazioni (esempio: Storia e geografia dei geni umani di L. L. Cavalli-Sforza, P. Menozzi e A. Piazza, Edizioni Adelphi, 1997 e Le Colonne d’Ercole di Sergio Frau, Edizioni NUR Neon, 2002). A questo punto necessita fare un’altra parentesi storica per ipotizzare che il molosso antico possa aver dato origine ad una delle varie razze di cane nuragico (potremmo definirlo molosso nuragico), osservabili tra i bronzi del Museo Nazionale di Cagliari, allora tanto prezioso (un animale anche da guerra?) da essere riprodotto in statuetta. C’è infatti da dire che nuove scoperte riportano all’attenzione la Sardegna e la sua storia. Come il recente rinvenimento nuragico di Cadice (Andalusia, Spagna, oltre lo stretto di Gibilterra), la mitica Gadir di Herakles (Ercole), una brocca askoide rituale, che potrebbe rimettere in discussione lo stereotipo di ritenere l’antica civiltà sarda chiusa dal mare. Probabilmente abbiamo a che fare con un popolo di esperti navigatori e le barche bronzee nuragiche, sulle quali sono raffigurati anche dei grossi cani dotati di largo collare (cani da combattimento muniti di gutturada, a protezione delle giugulari) hanno questo significato. Le ricerche sul Dna degli animali monitorati in occasione delle rassegne Enci tenute nel paese di Fonni negli anni 2000, 2001 e 2002 e di quelli (Dogo Sardo) sparsi nel territorio regionale potranno non solo rinforzare l’ipotesi della discendenza delle popolazioni canine sarde dall’antico molosso (termine derivato da Molosia o da Molossi, rispettivamente regione caucasica ed etnia della stessa area, dove era allevato un particolare e grosso cane addestrato al combattimento) ma anche contribuire a far luce sul percorso preistorico dell’antica Sardegna. 1 dati estrapolati dalle mappe geniche potranno essere raffrontati a quelli ottenuti dallo studio di razze simili presenti nei Paesi Baschi (Encartacionak) ed in aree caucasiche (Kurdistan?). In Spagna, uno studio effettuato dall’Università di Cordoba ha dimostrato, grazie ad una ricerca sul Dna del Villano de Las Possier Encartaciones, un cane tigrato originario dei paesi baschi molto simile al Dogo Sardesco per aspetto, carattere e funzione (conduzione e controllo di piccoli bovini), che questa popolazione canina è molto antica ed è incontaminata da altre razze. A questo punto non possiamo non ricordare che nella poesia Cani da battaglia, scritta da Sebastiano Satta nell’anno 1912 in occasione dell’utilizzo di cani sardi in Libia, nel corso del conflitto ItaloTurco, il poeta barbaricino rende onore a varie razze canine proprie dell’lsola, mastini, alani, doghi, cani sardeschi: il Mastino d’Arzana, l’Alano d’Orzulè, il Dogo ed il Cane di Fonni. Lo stesso poeta, nel canto Murrazzànu, racconta di un cane molosso famoso tra i cacciatori perché protagonista di un episodio di caccia realmente accaduto: “l’uomo dev’essere contro all’uom nemico/simile a Murrazzànu. / Murrazzànu, il molosso, all’albeggiare / levò il cignale e fiero l’inseguì / Sotto le quercie, all’ombra, a meriggiare / stavan pastori e branchi a mezzodì, / quando il molosso ansante ritornò, / e l’ansima dal petto gli cacciò / il sanguinante cuore della belva”. Sull’esperimento dell’impiego di cani in Libia, l’Enciclopedia Militare, Edizioni Il popolo d’Italia dell’anno 1927 pag. 625 volume 11, alla voce Cani da guerra, testimonia: si provvide in via di ripiego assegnando alle truppe del corpo d’operazione un certo numero di cani tolti alla R. Guardia di Finanza o raccolti affrettatamente tra quelli da guardia e da caccia della razza sarda ( )”. Bisogna dire che anche Gabriele D’Annunzio, nella tragedia Più che l’amore del 1906, parla degli allora già famosi cani sardi: infatti egli affianca al protagonista Corrado Brando un fedele servo, tale Rudu di Santulussurgiu, più che altro un amico, descritto “( ) di membra snello, asciutto e muscoloso come quei veltri sardeschi addestrati alla piga contro la bestia e l’uomo ( )” (sa piga è la presa, bloccare animali e uomini). Anche nel Notturno, pagine nate dopo la lesione all’occhio che lo costrinse all’immobilità, D’Annunzio ricorda sempre la Sardegna ed i suoi “( ) cani sardeschi, i mastini di Fonni, i veltri del Monte Spada ( )”. Nella campagna di Libia i cani sardi furono i veri protagonisti e da questa esperienza originarono i reparti cinofili. Gli animali venivano addestrati contro l’uomo: un soldato italiano vestito da arabo o da turco, con tanto di barracano o di fez, seviziava l’animale; si presentava quindi un altro militare vestito dell’uniforme italiana, che coccolava e nutriva l’animale al fine di affezionarlo a questa divisa. Gli effetti dell’addestramento erano apprezzati quando l’animale scorgeva un fantoccio, vestito appunto da arabo o da turco, nascosto tra i canneti o tra le tende dell’accampamento: gli si avventava con rabbia ed il conduttore faticava a fermarlo. La tecnica utilizzata per l’addestramento non era dissimile da quella descritta dallo stesso Domenech ma anche da Baldassarre Luciano nel 1841 in Cenni sulla Sardegna e dal gesuita Antonio Bresciani. Quest’ultimo infatti, nell’anno 1861, pagg. 89 e 90 dei Costumi dell’Isola di Sardegna, narra di una particolare razza di cani: “( ) Egli è a dire altresì d’una stirpe di cani, tutta propria dell’Isola, i quali son tanto valenti alla guardia che i Sardi li hanno a ragione in altissimo pregio. Tendono alquanto alla nazion de’ levrieri: hanno il muso aguzzo, gli orecchi ritti, la vita lunga e slanciata, le gambe snelle e sottili, il pelo irto o rado di color lionato o bigio piombo. ( ) Quando l’uomo dice loro: – Piga, e’ si lanciano come leopardi ai cavalli, a’ porci, ai becchi, a’ tori, e si gittan loro d’un salto all’orecchio o l’assannan per guisa, che non se ne spiccano se non al richiamo di colui che li aizzò alla bestia. I banditi ripongono in que’ valorosi mastini la loro salvezza, i viandanti gli hanno sempre al fianco o alla testa de’ cavalli; i cacciatori gli ammettono a’ cinghiali, a’ cervi, a’ daini, alle lepri e alle volpi. I banditi, quando sono catolli, li attizzano, gi’inviperiscono, li affamano, li legano stretti nelle tane al buio, di che riescono ferocissimi. ( ) Quindi non è a stupire quando noi leggiamo che ( ) navigata una flotta della Repubblica francese alla conquista dell’Isola, i Francesi ne furono cacciati dai cani. Conciossiaché volteggiando le navi sopra il capo di Carbonara, come i montanari s’avvidero che i repubblicani disegnavano d’insignorirsi del regno, fattisi motto, convennero da tutt’i monti di quella costa, e stavano alla vedetta dai loro agguati. Perché l’ammiraglio, fatte le volte larghe, si drizzò a filo verso il golfo di Quarta, ed ivi surte le navi e messi gli scalmi in acqua, condusse a terra le truppe. Ma i montanari non prima li videro calar sulla spiaggia, che aizzati lor veltri alla piga, ‘quell’aspra falange di rabbiosi cani si dissertò precipitosa da’ monti e s’avventò addosso a’ soldati. Al primo vederseli correre a fronte, cominciarono a tirar loro contra con gli archibugi: ma quelle tigri, fatte più calde e frementi al fuoco, al fumo, al fragore delle artiglierie, correndo e nabissando colle aperte bocche, investirono l’oste nemica; ed arricciando i peli, e ringhiando e co’ morsi addentandoli fieramente non lascianvali riavere. I miseri Francesi da quelle taglienti morse pertugiati, squarciati, strambellati, gridando mercè ed altamente stridendo, si sbarattarono per salvarsi alle navi. Ma i cani assediandoli e saltando lor sopra da tutt’i lati, e sgretolando stinchi e sbranando polpe li ebbero espugnati per modo che beato chi potea gettarsi in mare per giungere a salvamento.( … )”. Questo episodio si riferisce al tentativo di sbarco messo in atto dai franco-corsi, nell’anno 1793, nel golfo di Cagliari. Questi antichi cani da guerra furono reclutati anche dalla Brigata Sassari nel primo conflitto mondiale ed ulilizzati nelle colonie Africane (Tripolitania, Eritrea, Etiopia) e nella guerra di Spagna. Un articolo dell’Unione Sarda del 4 gennaio 1912, indica anche il prezzo pagato per l’acquisto degli animali: “I’esperimento dell’uso dei cani in guerra ha dato ottima prova. (… ) A proposito di cani da guerra pubblichiamo oggi alcuni particolari sulla squadra formata a Cagliari e partita nei giorni scorsi per Napoli a bordo del piroscafo “Principe Amedeo”. Il piccolo reggimento di cani è stato reclutato tutto in diversi paesi della Sardegna ed è composto dalle più temibili ed intelligenti bestie che si trovano nella nostra isola. All’arrivo essi saranno divisi in cinque plotoni, i quali, con un adeguato numero di soldati, si porteranno rispettivamente a Tripoli, Homs, Derna, Tobruk e Bengasi. Il loro ufficio di guerra sarà quello di proteggere le nostre truppe di avanscoperta dalle insidie e sorprese del nemico, e raggiungeranno molto bene lo scopo anche perché, fin da quando giunsero qui a Cagliari, furono addestrati a riconoscere il costume caratteristico degli arabi e dei turchi e a inferocirsi vedendolo.( … ) Sono pure muniti di museruola e di larghe collane di cuoio su ciascuna delle quali si vede infissa una targhetta di ottone con il loro nome originario. Ve ne so no di tutti i colori e di tutte le dimensioni e notevoli specialmente due: quello del caporale Antonio Brundu di Ploaghe, un bellissimo e grossissimo cane dal pelo chiaro e arruffato a cui, con precisa rispondenza al suo aspetto e alle sue dimensioni, fu imposto il nome di Leone; e quello, anche esso molto grosso e molto bello, del soldato orunese Antonio Coddi, e che se il nome di Fide cum nemos gli fu bene appropriato, va alla guerra con propositi certo non di piacere. A ogni portatore sono state inoltre consegnate due museruole e due collane di ricambio. Per l’acquisto dei cani fu spesa la complessiva somma di 2.700 lire: quindi, essendo i cani cento, in media si spesero lire 27 per ogni cane”. Gli animali, cani da pastore e da presa in prevalenza tigrati, furono acquistati soprattutto in Barbagia, Ogliastra, Logudoro e Gallura, regioni nelle quali erano molto numerosi. Il numero dei cani superò in totale le trecento unità e la maggior parte di essi furono abbandonati in Africa. Un cane è sicuramente rientrato in Sardegna e risulta che il suo proprietario percepì per molto tempo la pensione assegnata all’animale-reduce. Risulterebbe inoltre rientrata una coppia di cani a Laconi, al seguito di un ufficiale. Le poche testimonianze parlano di animali prima addestrati a stanare, fermare e segnalare la presenza di nemici in azioni di avanscoperta. Ben presto la loro azione degenerò ed i cani iniziarono ad attaccare i ribelli che, nottetempo, cercavano di introdursi negli accampamenti nemici e che, da buche scavate nella sabbia del deserto, sparavano sugli italiani. Lantico cane sardo tigrato, animale polivalente anche nei suoi derivati, viene descritto da Arturo Baravelli in Musedda, racconto pubblicato dall’editoriale Olimpia nel libro “Cacce di Sardegna” del 1942. Esperienze, vissute dall’autore a cavallo tra la fine del diciannovesimo secolo e l’inizio del ventesimo, che meritano di essere lette non solo dall’ appassionato cacciatore: “Ero di residenza a Padru, nei salti di Gioss, ospite di un certo Pasquale Quaglioni, facoltoso proprietario del luogo e rinomato cacciatore di cinghiali ( ) amava la caccia sopra ogni cosa; ma più che la caccia vagante col fucile la sua grande passione era la cattura della grossa selvaggina coi cani da corsa e da presa, che egli stesso addestrava magistralmente ( … ) in una sola stagione, così, senza sparare il fucile, aveva raggiunta la spettacolosa cifra di ottanta cinghiali e qualche cervo ( ) ebbe naturalmente cani di meriti eccezionali, di alcuni dei quali è ancora vivo il ricordo ( ) al tempo del mio soggiorno la prediletta era Musedda, tipico soggetto di quella famosa razza tigrata che diede nel passato e dà tuttora, in quasi tutte le contrade di Sardegna, i migliori cani da caccia grossa alta, muscolosa, vivacissima, il petto ampio, orecchie e coda mozze, Musedda mostrava sull’agile corpo i segni di cruente battaglie e del suo valore velocissima e coraggiosissima, quando accadeva che il cinghiale, incalzato dalla muta, era costretto a uscire dal bosco in campo aperto, in quattro salti gli era addosso e se riusciva a ficcargli il dente dietro l’orecchio o sotto la spalla, i due soli punti dove non giunga l’offesa della zanna micidiale, non lo mollava più (… ) anche quando la fiera cadeva finita dal coltello (… ) essa rimaneva lì, coi denti conficcati nelle carni della sua vittima, tremendamente inferocita, insensibile ad ogni richiamo, tanto che non di rado occorrevano lunghe ore di attesa e ripetute abluzioni di acqua fredda, per allentare la morsa formidabile delle sue mascelle”. Questi nobili e antichi animali, pastori, guerrieri e cacciatori, un tempo erano molto comuni in Sardegna e la diminuzione del loro numero iniziò nell’immediato secondo dopo guerra del secolo appena trascorso. I tedeschi in ritirata non avevano razziato solo Fonnesi ma anche i migliori esemplari di Dogo Sardesco, caricati numerosi sulle navi ancorate nel porto di Cagliari. L’abbandono delle campagne ed il mutare dei sistemi di allevamento contribuirono a ridurre drasticamente il numero degli animali che, non essendo più considerati utili, venivano ora abbandonati a se stessi e non più selezionati ed allevati in modo adeguato. Veniva in tal modo accelerato il degrado della razza. Il culmine fu raggiunto quando arrivarono nell’Isola malattie sconosciute assieme alle prime razze continentali importate intorno agli anni cinquanta. “I forti cani tigrati morivano come mosche”, testimonia un novantenne capocaccia sulcitano. Allo stesso periodo può riferirsi l’iniziò di un massiccio prelievo di esemplari tipici da parte di cinofili continentali, finalizzato all’insanguamento, fuori Sardegna, di popolazioni canine emergenti: alcuni ceppi di Mastino Napoletano e Cane Corso discenderebbero dal Dogo Sardesco. L’isolamento degli animali sardi aveva permesso il mantenimento di caratteristiche non riscontrabili in altre razze simili come ad esempio il cane robusto (oggi chiamato Cane Corso), guardiano delle masserie del centro-sud italiano; i pregi degli antichi cani tigrati contribuirono a decretarne la decimazione. Voglio ultimare dicendo che la parola Dogo deriva dall’inglese dog (cane) ed è un imbarbarimento medioevale. In Spagna con “Dogo” viene indicato un cane di costituzione robusta e dal pelo corto, testa grande, muso potente e dentatura poderosa, in origine utilizzato soprattutto nella caccia grossa. Abbiamo parlato di quell’animale che gli anziani identificano da sempre con Su Cani Sardu Antigu, mitizzato fino all’eccesso. Ritengo che possano riferirsi a tale definizione non solo Su Cani Pertiatzu-Dogo Sardesco ma anche il Cane di Fonni, l’Alano di Urzulei, il Mastino d’Arzana, il Veltro del Monte Spada, il Mastino di Bonorva, il Cane di Gavoi, il Sorgolino e Su Vertreddu o Veltro Sardesco descritto dal cinofilo Giovanni Bonatti Zizzoli nel 1973, presente nella provincia nuorese: un cane da corsa e da presa di taglia medio-grande (alto circa 60-65 centimetri al garrese), muscoloso, vivace, dal petto ampio e dal mantello grigio o fulvo coperto di tigrature, orecchie e coda mozzati, particolarmente resistente al caldo ed alla sete. Animali, questi, per lo più estinti a causa dell’incuria e che di tanto in tanto ritornano dal passato grazie agli incroci a suo tempo effettuati. Popolazioni canine antiche che bisognerebbe cercare di recuperare attraverso un serio lavoro di selezione e allevamento in quanto reali elementi culturali di quella sardità troppo spesso predicata e sempre meno praticata.

Roberto Balia

Sverminare gli ovini – Ivomec

1657872-caproneMi è capitato di notare un costante dimagrimento di alcuni soggetti presenti nel mio allevamento famigliare. Poichè hanno la possibilità di pascolare dall’alba al tramonto su un ricco prato inerbato da colture miste e siccome gli esami del sangue fatti dalla Asl erano tutti negativi, altro non può essere che una infestazione parassitaria da vermi. Ho cercato un prodotto specifico su google ma non ho trovato nulla. Su molti forum non sono gradite pubblicità ai prodotti mentre qui vi indicherò come fare.

Per sverminare le mie caprette ho usato l’IVOMEC che gentilmente mi ha passato la mia vet in una siringa.  Basta una sola iniezione per risolvere il problema.

Di seguito trovate la scheda del prodotto.

Spero di esservi stato utile! 😉

Se volete sapere di più sulle malattie degli ovini, SCARICATE QUESTA GUIDA

La soluzione iniettabile e’ indicata per il trattamento ed il controllo delle seguenti specie di nematodi gastrointestinali, vermi polmonari, altri nematodi, parassiti esterni, pidocchi ematofagi ed acari della rogna dei bovini. Nematodi gastrointestinali (adulti e larve di 4 stadio) Ostertagia ostertagi (incluse le larve inibite), Ostertagia lyrata, Haemonchus placei, Trichostrongylus axei, Trichostrongylus colubriformis, Cooperia oncophora, C. punctata, C. pectinata, Cooperia spp., Oesophagostomum radiatum, Bunostomum phlebotomum, Nematodirus helvetianus (adulti), N. spathiger (adulti), Strongyloides papillosus (adulti),Toxocara (Neoascaris) vitulorum (adulti). Vermi polmonari: (adulti elarve di 4 stadio) Dictyocaulus viviparus (incluse le larve inibite).Altri nematodi: Parafilaria bovicola e Thelazia spp. (adulti). Parassiti esterni: Hypoderma bovis, H. lineatum (stadi larvali). Pidocchi: Linognathus vituli, Haematopinus eurysternus, Solenopotes capillatus, come ausilio nel controllo dei mallofagi appartenenti alla specie Damalinia bovis. Acari: Psoroptes ovis (sin. P. communis var. bovis), Sarcoptes scabiei var. bovis, come ausilio nel controllo di Chorioptes bovis.

Il farmaco, somministrato alla dose raccomandata di 1 ml per 50 kg di peso corporeo controlla reinfestazioni sostenute da Haemonchus placei e Cooperia spp. che hanno luogo nei primi 14 giorni dal trattamento,da Ostertagia ostertagi ed Oesophagostomum radiatum che hanno luogo nei primi 21 giorni dal trattamento e da Dictyocaulus viviparus che hanno luogo nei primi 28 giorni dal trattamento.

SUINI: la soluzione iniettabile di IVOMEC e’ inoltre indicata per il trattamento ed il controllo dei seguenti parassiti dei suini: nematodi gastrointestinali (adulti e larve di 4 stadio) Ascaris suum, Hyostrongylus rubidus, Oesophagostomum spp., Strongyloides ransomi (adulti), come ausilio nel controlodei nematodi ematofagi appartenenti alla specie Trichuris suis (adulti). Il prodotto somministrato alle scrofe 7-14 giorni prima del parto controlla efficacemente la trasmissione transmammaria ai suinetti delleinfestazioni da Strongyloides ransomi. Vermi polmonari (adulti) Metastrongylus spp. Pidocchi: Haematopinus suis. Acari: Sarcoptes scabiei var. suis. Nota: si raccomanda di usare particolare attenzione per prevenire il trasferimento della parassitosi ad animali sani o luoghi noninfestati, dato che l’effetto dell’ivermectina sugli acari non e’ immediato. I suini non dovrebbero essere spostati in luoghi indenni od esposti a contatto con soggetti sani per almeno una settimana dopo il completamento del trattamento. Le scrofe dovrebbero essere trattate almeno una settimana prima del parto per minimizzare il trasferimento di acari ai suinetti. Nel caso di pediculosi, puo’ rendersi necessario ritrattare i soggetti poiche’ alle uova del parassita occorrono almeno 3 settimane per schiudere.

CONTROINDICAZIONI/EFFETTI SECONDARI:
Non usare per via intramuscolare ed endovenosa.

USO/VIA DI SOMMINISTRAZIONE:
Via sottocutanea.

POSOLOGIA:
BOVINI: il dosaggio raccomandato e’ di 200 mcg di ivermectina ogni chilogrammo di peso corporeo, corrispondente a 1 ml di soluzione ogni 50kg di peso corporeo, da somministrarsi unicamente per via sottocutanea. L’iniezione sottocutanea va effettuata in posizione craniale o caudale rispetto alla spalla. Si raccomanda l’uso di ago sterile calibro 16, da 15 a 20 mm. SUINI: il dosaggio raccomandato e’ di 300 mcg di ivermectina ogni chilogrammo di peso corporeo, corrispondente a 1 ml di soluzione ogni 33 kg di peso corporeo. La via di somministrazione raccomandata e’ quella sottocutanea nella parte dorsale del collo. La soluzione puo’ essere somministrata con qualsiasi apparecchiatura standard automatica o a dosaggio singolo, rispettando le normali condizioni di asepsi. Programmi consigliati di trattamento dei suini. Suini da riproduzione: all’inizio di qualsiasi programma di controllo antiparassitario e’ importante trattare tutti gli animali da riproduzione presenti nel gruppo. Dopo il trattamento iniziale, impiegare IVOMEC con regolarita’ come segue: scrofe e scrofette: trattare preferibilmente 7-14 giorni prima del parto per minimizzare l’infestazione dei suinetti. Trattare anche 7-14 giorni prima dell’accoppiamento. Verri: trattare almeno due volte all’anno a seconda della gravita’ dell’infestazione. Suini all’ingrasso: si raccomanda di trattare tutti i suini prima dell’immissione nei recinti da ingrasso non infestati e comunque qualora si dovessero riscontrare episodi di endo- ed ectoparassitosi.

CONSERVAZIONE:
Questo medicinale veterinario non richiede alcuna speciale condizionedi conservazione. Non congelare.Tenere fuori dalla portata dei bambini. Non usare dopo la data di scadenza riportata in etichetta. Periodo di validita’ dopo la prima apertura del flacone: 11 mesi

AVVERTENZE:
Suddividere dosi superiori a 10 ml in due punti di iniezione per ridurre i disturbi occasionali e le reazioni all’inoculo. Utilizzare puntidi inoculo differenti per altri prodotti ad uso parenterale.

TEMPI DI SOSPENSIONE:
Carni bovine: 42 giorni. Carni suine: 28 giorni. Da non usare in bovine in asciutta, in lattazione ed in riproduzione, al fine di evitare residui del farmaco nel latte destinato al consumo umano.

SPECIE DI DESTINAZIONE:
Bovini e suini.

INTERAZIONI:
Puo’ essere somministrato contemporaneamente al vaccino antiaftoso o ai vaccini per le clostridiosi,senza provocare reazioni indesiderate. Altri prodotti iniettabili devono essere somministrati in aree cutaneediverse.
DIAGNOSI E PRESCRIZIONEDa vendersi dietro presentazione di ricetta dedico-veterinaria in triplice copia non ripetibile.

EFFETTI INDESIDERATI:
Sono stati notati disturbi transitori in alcuni bovini dopo il trattamento sottocutaneo. Inoltre, nel punto di inoculo sono stati osservatidei transitori e leggeri gonfiori. Tali reazioni secondarie si sono risolte senza trattamenti.

GRAVIDANZA E ALLATTAMENTO:
Da non usare in bovine in asciutta, in lattazione ed in riproduzione,al fine di evitare residui del farmaco nel latte destinato al consumo umano.

 

Ritrovamento cuccioli di animali selvatici, ecco cosa fare

cucciolo-caprioloDalla fine dell’inverno all’inizio dell’autunno è facile che vi imbattiate in animali selvatici che potrebbero sembrare abbandonati, o in difficoltà. In realtà sono solo dei giovani o piccoli in allattamento che attendono il ritorno dei genitori rimanendo nascosti e immobili, unica loro forma di difesa contro eventuali predatori.

I consigli su cosa fare giungono dal personale del Parco del Gran Sasso e Monti della Laga:

 

“Comportamenti naturali per noi “umani” alcune volte si dimostrano dannosi nei confronti degli animali selvatici che vorremmo aiutare.

17_2_Grafica_PNALMDalla fine dell’inverno all’inizio dell’autunno è facile che vi imbattiate in animali selvatici che potrebbero sembrare abbandonati, o in difficoltà. In realtà sono solo dei giovani o piccoli in allattamento che attendono il ritorno dei genitori rimanendo nascosti e immobili, unica loro forma di difesa contro eventuali predatori.

Le madri di Cervo e Capriolo, ma anche quelle di molte altre specie animali, utilizzano i prati, il sottobosco o le siepi per nascondervi i cuccioli in allattamento e poi andare ad alimentarsi più lontano evitando, così, di richiamare, con la loro presenza, eventuali predatori che potrebbero catturare i cuccioli.

Quando scorgete un piccolo di qualsiasi specie, immobile e acquattato osservatelo e godete della sua bellezza e tenerezza, ma non toccatelo a meno che non sia gravemente ferito o posto in un sito pericoloso come, ad esempio, in mezzo ad una strada. Nel qual caso è opportuno spostarlo semplicemente di pochi metri facendo in modo che la madre lo possa ritrovare facilmente ed evitando al contempo eventuali incidenti.

Allontanandoti dal luogo del ritrovamento senza accarezzarlo, permetterai ai genitori che ti hanno scorto di ritornare dal loro piccolo, ma soprattutto eviterai che lo abbandonino definitivamente a se stesso, sentendo il tuo odore su di lui. Solo così eviterai la sua sicura morte.

LA MAMMA ASPETTA CHE TI ALLONTANI PER POTER RAGGIUNGERE IL SUO PICCOLO

Se lungo le strade, i sentieri o in mezzo ai prati, vi imbattete in piccoli di animali selvatici apparentemente bisognosi di cure, ecco cosa è importante sapere:

 

  • Per gli animali selvatici, il posto migliore in cui vivere ma anche in cui morire è il loro habitat naturale. Questo significa conoscerli e rispettarli.
  • I mammiferi come il cervo, il capriolo, il daino, e la lepre non hanno una tana in cui partorire i piccoli e non formano nuclei familiari in cui la prole è sempre a contatto con i genitori. La madre li accudisce e alimenta ad intervalli regolari, per allontanarsi subito dopo, in modo da non attirare i predatori sul luogo in cui è nascosto il proprio piccolo.
  • Alcuni uccelli abbandonano spontaneamente il nido (es, civette, allocchi, allodole, spioncelli…), quando ancora non sanno volare, pur essendo ancora seguiti ed alimentati dai genitori.
  • I nidiacei ed i cuccioli sani devono essere lasciati nel luogo di ritrovamento (senza toccarli ed accarezzarli), a meno che non si sia certi della morte dei genitori o di un pericolo incombente.
  • I nidiacei, se possibile, riposizionateli velocemente nel nido o su di un ramo. I genitori continueranno a nutrirli, di notte, quando ve ne sarete andati.
  • I cuccioli, solo se in grave pericolo, spostateli in un luogo protetto poco distante da dove l’avete trovati e possibilmente, senza toccarli con le mani nude.
  • Tenete il vostro cane al guinzaglio durante le passeggiate in natura, soprattutto da aprile a luglio.
  • Gli uccelli ed i mammiferi selvatici sono specie protette ed appartengono al patrimonio dello Stato (L 157/92, Direttive Internazionali)”.

I casi mediatici senza senso delle organizzazioni animaliste danneggiano gli animali. E chi li ama. Che merita di meglio

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Ho sempre pensato che bestemmiando si offendessero i cristiani.

Ho sempre pensato che avesse ragione mio nonno. Da ateo, non bestemmiava perché, semplicemente, oltre a ritenerla una pratica volgare,”“non puoi insultare qualcosa che non credi nemmeno che esista”.

Io sono molto più triviale di mio nonno, camallo del porto dall’animo nobile. Rispetto la Fede altrui ma mi capita di trascendere e usare la bestemmia come intercalare. Mea culpa.

Mai però avrei pensato che bestemmiando si potesse offendere un gregge di pecore.

Dello stesso avviso non è la PETA (People for the Ethical Treatment of Animals), l’organizzazione animalista che in Australia ha denunciato tal Ken Turner, proprietario di un complesso agricolo perché un suo dipendente era stato ripreso mentre imprecava davanti alle pecore al pascolo.
Secondo l’accusa, il gregge si sarebbe potuto offendere. Secondo Turner, “Nessuna pecora mi ha denunciato. Non mi sono sembrate neppure offese quando le ho tosate”.

La vicenda, da un punto di vista legale, si è fortunatamente conclusa in un nulla di fatto (In Australia, come in Italia, l’illecito amministrativo, non contempla la presenza di animali, ma solo di esseri umani.

Le associazioni animaliste non suono nuove a tempeste nei bicchieri che rasentano la follia.
Avete presente la gallina del Mulino Bianco, quella degli spot conAntonio Banderas?
Per l’Aidaa (Associazione italiana difesa animali e ambiente) “La gallina appare innaturale nei movimenti, potrebbe essere per le condizioni di forte stress dovuto alla legatura delle gambe”. Così tuonavano qualche mese fa. L’aspetto “innaturale” derivava da una ragione molto semplice: non si è mai trattato di una vera gallina, ma di un robot.

Altro caso surreale fu la battaglia, sempre dell’Aidaa, controCappuccetto rosso, fiaba colpevole di dipingere i lupi come animali cattivi. Il loro intento era quello di chiedere “a tutti i genitori di non leggere più ai propri figli la fiaba di Cappuccetto rosso, alle biblioteche di ritirarla dagli scaffali ed alle case editrici di smettere di pubblicare quell’orribile inno all’odio contro gli animali e a favore dei cacciatori assassini di animali”.

Lorenzo Croce, Presidente dell’associazione animalista, puntualizzava: “Dopo l’orrore di Peppa Pig che mostra i maialini felici quando invece sono sterminati nei mattatoi è ora di pensare alla distruzione di un altro falso mito alimentato da orribili fiabe, quello del lupo cattivo che viene tramandato da generazioni nei bambini con l’orribile fiaba di cappuccetto rosso dove il lupo viene presentato non solo come un animale cattivo, ma anche cinico e mangiatore di uomini”.
Chissà che ne pensano dei pinguini di Madagascar!

Al di là di ogni facile ironia, sforzandomi di mitigare le mie prese di posizione estetiche (trovo hippy e vegani impresentabili, non sopporto come si vestono o come parlano) la verità è che è perfettamente comprensibile il pensiero di chi ama gli animali e desidera non nuocere loro, si astiene dal mangiarli e si impegna per accudirli e tutelarli.

Nonostante i miei pregiudizi e la mia profonda convinzione che sia legittimo e sano nutrirsi di carne animale e distinguere in maniera netta l’importanza della vita degli esseri umani e l’importanza della vita degli altri esseri viventi (considero chi sostiene che “mangiare agnellini sia come mangiare neonati” pazzi ipocriti pericolosi) negli anni ho conosciuto diversi vegetariani, vegani e animalisti sani di mente e razionali.

Persone che hanno idee (condivisibili o meno) che portano avanti con serena passione e rispetto altrui.

Ogni volta che leggo notizie come quelle delle bestemmie, delle (cyber) galline e delle fiabe istigatrici di violenza penso a loro.

E a quanto sia profondamente ingiusto che debbano essere rappresentati da squinternati e piantagrane, furbastri esibizionisti sollevatori di polemiche inutili che magari non offenderanno pecore, lupi o maiali, ma immagino offendano l’intelligenza e il decoro di milioni di esseri umani che amano gli animali.

Marco Cubeddu

fonte: panorama.it

 

Foto: 20 gennaio 2015. Un gruppo di pecore della Fattoria Ambury al pascolo in un prato arso ad Auckland, in Nuova Zelanda. Nel Paese il livello di umidità del suolo è inferiori alla media a causa della perdurante siccità. – Credits: Phil Walter/Getty Images

Come fare il formaggio

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Il formaggio deriva dalla coagulazione del latte (vaccino, caprino o ovino) tramite caglio. Il caglio è il prodotto della macerazione di parti dello stomaco di vitello, di agnello o di capretto in un liquido appropriato. In commercio si trovano vari tipi di caglio. È meglio acquistarne uno di buona qualità con l’indicazione della sua forza coagulante. La più diffusa è 1:10.000, cioè circa 1,5 ml di caglio coagula in quaranta minuti 10 litri di latte con normale acidità a 35 °C. Va precisato che il latte coagula anche da solo dopo circa 12-18 ore che è mantenuto ad una temperatura di 30 °C, sotto l’azione dell’acido lattico che si forma. Vedi Termometri per alimenti. Si può aiutare la coagulazione naturale con del succo di limone oppure con una piccola quantità di siero di una precedente cagliata (la massa del latte coagulato). Più la temperatura è elevata e maggiore sarà la velocità di coagulazione. Per avere la cagliata in un tempo prestabilito si ricorre all’uso del caglio. Per chi non volesse ricorrere all’uso di caglio animale ci sono in commercio anche cagli interamente chimici ma anche, ancor meglio, il caglio di carciofo selvatico.

Il caglio va aggiunto al latte intiepidito ad una temperatura di 36°-39°C secondo il tipo di formaggio. Se ci sono problemi di cagliatura si può provare ad alzare la temperatura prima di provare ad aggiungere dell’altro caglio. Prima di essere aggiunto al latte è bene che il caglio sia diluito in poca acqua. Per piccole forme di formaggio casalingo è bene dosare il caglio con un contagocce. Il caglio teme la luce e il calore: tenerlo quindi in frigorifero in una bottiglia di vetro scuro. Un consiglio prezioso è quello di non rimestare il latte una volta che è iniziata la coagulazione né spostare i recipienti che la contengono perché la cagliatura è un processo molto delicato. Dopo la coagulazione del latte c’è la fase cosiddetta della rottura della cagliata e dello spurgo. Per una lavorazione casalinga si può rompere la cagliata con le mani sgretolandola molto lentamente. La rottura della cagliata favorisce lo spurgo.

Lo spurgo consiste nella successiva separazione della cagliata dal siero (la parte solida da quella liquida). Prima però di prelevare con un mestolo il siero per effettuare la separazione (o con altro sistema) si deve lasciar riposare la cagliata dopo la rottura per qualche minuto così che possa sedimentarsi bene sul fondo. Per alcuni tipi di formaggio (i cosiddetti formaggi cotti), la cagliata, una volta frantumata, viene cotta a una temperatura comunemente compresa tra i 44 e i 56 °C, secondo il tipo di formaggio che si vuole così ottenere. La cottura facilita un ulteriore spurgo e favorisce l’aggregazione dei grumi caseosi.

La filatura è un’altra operazione talvolta operata al fine di conseguire determinate qualità di formaggio. La cagliata viene lasciata per alcune ore nel siero caldo acido. In questo modo si ottiene la solubilizzazione dei sali di calcio e la demineralizzazione della pasta che diventa plastica. La pasta può venire allora lavorata e ridotta in filamenti da cui si ottengono le forme desiderate di formaggi a pasta filata. Dopo lo spurgo avviene la salatura che può essere di tue tipi: a secco o in salamoia. Quella a secco è riservata ai formaggi molli e consiste nel cospargere di sale grosso, secondo la misura richiesta e in più riprese su entrambe le facce, la forma di formaggio. Per quella in salamoia i formaggi vengono messi in vaschette di acqua e sale.

La salatura aumenta anch’essa lo spurgo, preserva dallo sviluppo di microorganismi o muffe nocive, aumenta il gusto del formaggio, determina la costituzione della crosta e solubilizza le proteine.

La stagionatura, ultima fase del processo caseario, è il processo di maturazione dei formaggi. È un aspetto fondamentale di tutta la lavorazione e serve a far assumere al formaggio la consistenza e l’aspetto dovuti. La stagionatura evidenzia sapori e aromi mediante un complicato processo chimico-enzimatico. Essa viene attuata in ambienti che cambiano a seconda del tipo di formaggio, ma che in linea di massima hanno condizioni di temperatura attorno ai 3-8 °C e umidità dell’85-90%.

Ricetta base per un formaggio di latte vaccino con caglio

Se si può utilizzare il latte vaccino di qualche allevamento che si ha nelle vicinanze sarebbe meraviglioso e il risultato sicuramente più corrispondente alle aspettative. In caso contrario ci si serva almeno del latte intero fresco perché quello a lunga conservazione ha subito trattamenti tali per cui è impossibile qualsiasi sua altra trasformazione. Gli strumenti che possono servire per realizzare del buon formaggio casalingo sono pochi e semplici. A parte una buona pentola di acciaio servirà senz’altro un apposito termometro per i formaggi con il quale misurare la temperatura nella varie fasi della lavorazione e le fascere (in acciaio o plastica), sorta di stampi forati in cui mettere la cagliata a spurgare e a prender forma. E poi alcune garze, un colino e delle vaschette di plastica se si vuole produrre del formaggio stagionato in salamoia. Per il discorso sulla qualità di un alimento prodotto in casa valgono le stesse considerazioni fatte per il pane. Se si può avere il controllo su quello che si mangia lo si avrà anche sulla salute. La ricetta che segue può essere variata in quantità rispettando debite proporzioni per gli ingredienti.

Procedimento

formaggio-casalingoPrendere 10 litri di latte, metterli in una pentola di acciaio e intiepidire sul fuoco a 27-28 °C. Quindi spegnere e aggiungere 1,5 ml di caglio (forza 1:10.000) mescolando bene. Infine coprire. Il tempo di cagliata varia a seconda della temperatura dell’ambiente. La cagliata è comunque pronta quando inserendo uno stuzzicadenti nel centro della stessa esso rimane diritto. A quel punto, rompere la cagliata con le mani, o con il mestolo, agendo molto lentamente e fino in fondo. Un siero verde chiaro o bianco trasparente è segno dell’ottima riuscita della cagliata. Quest’ultima, dopo esser stata frantumata va lasciata depositare sul fondo per qualche tempo finché la parte liquida in superficie si è separata in modo netto dalla parte solida. Togliere quindi con un mestolo il siero (la parte liquida) sovrastante la cagliata. Il siero va poi messo da parte perché con esso si può fare la ricotta (vedi oltre). Ora: per ottenere un formaggio stagionato che si conserva a lungo mettere la pentola con la cagliata sul fuoco e portare il tutto a 37 °C, facendo attenzione che non si attacchi sul fondo. Poi spegnere. Se invece si vuole preparare un formaggio fresco non necessita scaldare ulteriormente la cagliata e si prosegue direttamente con le fasi successive. Con la cagliata separata dal siero, riscaldata o meno secondo il tipo di formaggio, si proceda quindi come segue: con un colino pescare la cagliata all’interno della pentola e metterla nelle fascere previamente ricoperte da una garza. Schiacciare con le dita il formaggio affinché il siero rimanente possa uscire.

filtrare-formaggio-garzaRicoprire poi con il risvolto della garza ogni forma di formaggio che va schiacciata ancora sulla cima. Capovolgere le fascere, estrarre i formaggi e togliere le garze che li avvolgono. Rimetterli quindi nelle fascere per 24 ore coprendole con un telo di cotone.

Dopo questo tempo, se si tratta di formaggio fresco si può mettere in frigorifero o consumare immediatamente, mentre se si tratta di preparare quello stagionato bisogna passare alla fase della salamoia che consiste nel far bollire dell’acqua con un’aggiunta di 150 grammi di sale fino per ogni litro della stessa. Lasciare poi raffreddare e mettere l’acqua salata in una vaschetta di plastica.

Si prendono quindi i formaggi e si immergono nella salamoia in cui si lasciano per 24 ore, rigirandoli sottosopra una volta al giorno (i formaggi devono galleggiare). Passato questo termine, togliere le forme di formaggio e depositarle su teli di cotone, rigirandole sottosopra per i primi due o tre giorni in modo che si asciughino. Per farle stagionare, mettere poi le forme su assi di legno non trattato (il legno di pioppo è il più indicato) in luogo fresco.

Come fare la ricotta in casa

Si prende il siero che si era ottenuto dalla prima coagulazione del latte e si scalda sin quasi a ebollizione (85 °C). Quindi si spegne e si aggiunge una tazza di acqua fredda per far calare la temperatura. Questo procedimento va ripetuto di seguito per quattro volte. L’ultima volta aggiungere insieme alla tazza d’acqua anche quattro gocce d’aceto bianco che facilitano la lavorazione. Dopo aver spento definitivamente la fiamma raccogliere con una schiumarola i grumi caseosi che vengono a galla (cioè la ricotta) e riporli in una fascera. A scolatura e raffreddamento terminato la ricotta è pronta da consumare. Se la lavorazione ha prodotto un buon risultato il siero che è rimasto nella pentola dovrebbe essere giallino o verde trasparente. Questo siero potrebbe poi essere ancora utilizzato come cibo per animali da cortile o maiali.

Come fare un formaggio fresco usando il limone come caglio

Si può avere una buona formaggella fresca anche usando il limone come coagulante. Per ogni litro di latte intero ci vuole il succo di un limone. Portare quindi la quantità voluta di latte a ebollizione. Versarvi il succo del limone necessario e mescolare velocemente con un cucchiaio di legno. Si formerà quasi subito la cagliata e la fiamma andrà immediatamente abbassata per qualche minuto e poi spenta. Filtrare con un colino la massa coagulata e riporre in un piatto il formaggio così ottenuto. Aggiungere sale a piacere. Si conserva a temperatura ambiente ed è immediatamente consumabile. Attenzione: Alimentipedia non si assume nessun tipo di responsabilità per possibili intossicazioni derivanti da formaggi fatti in casa.

Tratto da: alimentipedia.it

Preparare il formaggio di capra

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Che soddisfazione! Abbiamo acquistato le caprette l’anno scorso, in primavera è nata Felicity e, finalmente, abbiamo il latte di capra per fare i nostri formaggi fatti in casa.

11069685_10204134922718191_8764195241808947592_nTutte le mattine Linda (la nostra capretta da latte di razza Camosciata delle Alpi), ci aspetta in attesa di essere munta. Felicity assiste alla mungitura dal suo box che la divide dalla mamma per la notte, se no….non avremmo latte anche per noi! Portiamo loro mezzo secchio di fiocchetto misto: un po’ per Rey (il becco) che ci attende fuori dal box, un po’ per Felicity e il rimanente a Linda. Mentre lei mangia, procediamo con la mungitura. 11150225_10204134923398208_7777284366711998128_nEssendo primipara, ogni mattina ci regala solo… 850 gr di latte profumato e schiumoso. Terminata la mungitura che dura pochi minuti, le caprette possono uscire fuori dal box per pascolare fino a sera. Tutto fila perfettamente, ogni giorno riviviamo un ciclo antico di millenni tra capra e uomo.

Il latte appena munto viene filtrato con un colino al cui interno vi è una garza per filtrarlo ulteriormente dopo di chè viene riposto in frigo. Ottenuti 4 litri di latte, lo scaldiamo leggermente a fuoco basso per portarlo sui 30 -35 gradi. Il caglio lo compriamo in farmacia ed è pratico gestirlo perchè viene venduto in un contenitore con conta gocce. Una volta che il latte è a temperatura, si può prendere una tazzina del caffe, metterci un paio di cucchiaini di acqua e poi il caglio (per tre litri bastano 15 gocce). Si gira il tutto per poi rovesciarlo direttamente nel latte. 11255480_10204288842726095_7665370650842134848_nMescolate bene in modo che il caglio sia ben distribuito nel latte. Fate riposare per 12 ore fuori frigo ad almeno 20 gradi con un coperchio. Trascorso questo periodo noterete che il siero è al di sopra della parte solida dall’aspetto compatto e gelatinoso. E’ il momento di rompere la cagliata. Potete usare una frusta da cucina dall’alto al basso e poi da sinistra a destra come a formare dei quadrati. Prendete un’altro contenitore, al di sopra ponete un grosso colino(deve contenere tutta la parte densa)con all’interno la garza in modo da dividere bene la parte solida da quella liquida). Delicatamente, con un mestolo, passate la cagliata nel colino. Il siero, NON BUTTATELO! Vi servirà per fare la ricotta di capra! 😉

Delicatamente, con le nocchie delle mani, pressate la materia grassa rimasta nel colino in modo che il siero esca. Mantenete la cagliata a scolare nel colino con al di sotto un piatto per raccogliere il siero e lasciate riposare per 6-12 ore, non oltre se no si guasta. Passate le ore per la sgocciolatura, salate e mettete il tutto in uno stampo che più vi piace. lasciare riposare per la notte e il gioco è fatto! Potete insaporire il formaggio con un mix di erbe oppure servendolo così com’è su un piattino con oli extravergine di oliva, sale e pepe.. 😉

Ricapitolando:

  1. 1
    In una pentola, o in un bollitore per il bagnomaria, versa i 4 litri di latte.Riscaldalo per raggiungere la temperatura di 30°C.
  2. 2
    Aggiungi il caglio liquido miscelato con un paio di cucchiaini di acqua e mescola con cura utilizzando una schiumarola, lo strumento ideale per amalgamare i due ingredienti fondamentali del formaggio di capra.
  3. 3
    Copri la pentola con il coperchio. Mettila da parte, a temperatura ambiente, e lasciala riposare per 12 ore. La temperatura della stanza dovrebbe essere di almeno 22°C. In questo modo, creerai le condizioni ideali perché si formi la cagliata.
  4. 4
    Procurati un colino dalle dimensioni adeguate, foderalo con della garza per formaggi, o con del tessuto di mussola, e mettilo nel lavandino della cucina.Con un mestolo, trasferisci la cagliata ed il suo liquido dalla pentola al colino.
  5. 5
    Quando tutta la cagliata sarà all’interno del colino, impugna le estremità della garza da formaggio o della mussola, e legale. Lascia scolare tutto il liquido dalla cagliata conservandola nel colino per le successive 6-12 ore, senza però superare questo limite di tempo. Al termine, rimuovi la cagliata dal tessuto.
  6. 6
    Versa la cagliata in una zuppiera di acciaio inox sufficientemente capiente.Condiscila con del sale marino integrale per accentuare il naturale sapore del formaggio di capra.
  7. 7
    Modella il formaggio per fargli assumere la forma che preferisci: cilindrica e classica del caprino fresco, rotonda o a spicchi. Avvolgi il formaggio nella carta da forno o nella pellicola per alimenti e conservala a temperatura ambiente per l’intera la notte, così che possa sviluppare una consistenza soffice. In alternativa, se preferisci una consistenza friabile, simile a quella della feta, lascia risposare il formaggio per qualche ora in più.

    • Insaporisci il tuo formaggio ‘impanandolo’ con un mix di erbe aromatiche a tuo gusto (basilico, timo, erba cipollina, aglio). Ovviamente questo passaggio è solo facoltativo e da evitare se preferisci il sapore naturale del caprino fresco. Avvolgi il tuo formaggio con della pellicola per alimenti o con della carta forno e conservalo in frigorifero.

    La prossima volta vi descriverò come facciamo la ricotta di capra fatta in casa utilizzando il siero ottenuto dalla lavorazione del formaggi di cui sopra.

Ciao, Federico Lavanche

Filariosi nel cane

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come-proteggere-il-cane-dalle-zanzare_47f295b77b6c7216c517dc2dc8718b90La Filariosi cardio-polmonare è una malattia che colpiscegli animali domestici distinta in due specie di Dirofilaria: immitis e repens, la prima delle due è la più importante.

La malattia è causata da nematodi (vermi) appartenenti alla Superfamiglia Filariodea ,dei parassiti che possono essere lunghi fino a 30 cm, Trasmessi da diverse specie di zanzare (Culex,Aedes, Anophele e tigre), quindi il periodo di maggior rischio va dalla primavera all’autunno, ossia il periodo di riproduzione delle zanzare.

La filaria è distribuita in tutte le aree temperate e tropicali del mondo, incluso Europa e bacino mediterraneo, Canada, USA, Giappone,Australia e Sud America.
Nel nostro paese benché prima fosse diffusa soprattutto in zone pianeggianti e paludose con elevato tasso di umidità come la Pianura Padana e l’Emilia Romagna, Recentemente a causa dei cambiamenti climatici si è ormai diffusa anche in altre regioni.

filiaria
Zanzara Tigre

Come si trasmette:
I parassiti adulti, detti Macrofilerie, si localizzano nelle arterie polmonari e più raramente nelle camere cardiache destre e vena cava caudale.

Gli adulti liberano nel torrente circolatorio gli esemplari più giovani, detti microfilarie L1 mentre le zanzare femmine (che rappresentano l’ospite intermedio) ingeriscono durante un pasto di sangue le microfilarie le quali all’interno dell’apparato buccale dell’insetto compiono un ciclo biologico mutando sino ad L3.
Durante un successivo pasto di sangue vengono poi trasmesse a un nuovo ospite e dopo aver subito una successiva mutazione raggiungono la loro definitiva localizzazione.

Nell’animale infestato da filaria (detto ospite definitivo) i parassiti possono sopravvivere producendo microfilarie per circa 5 anni.

NON ESISTE NESSUN VACCINO CONTRO LA FILARIA QUINDI LA COSA MIGLIORE RIMANE LA PREVENZIONE!

I farmaci contro le larve della filaria

dimmitisLa terapia non può essere somministrata nei cuccioli. Occorre che gli amici pelosetti abbiano compiuto almeno le 6-8 settimane di vita, ma nessun problema nel procedere dopo: i farmaci in questione hanno un’efficacia retroattiva anche fino a 30-50 giorni, è comunque necessaria una visita iniziale del veterinario che escluda la presenza della filaria adulta nel cane.
Tra i prodotti più comuni in commercio troviamo:
Interceptor ®Flavor e Milbemax®Cani (Milbemicina ossima): si somministrano per via orale 1 volta al mese a partire dalla comparsa delle prime zanzare fino ad un mese dopo la loro scomparsa, ovvero date le nostre temperature e l’attuale diffusione degli insetti dall’inizio dellaprimavera all’autunno. Interceptor ®Flavor è in compresse ed una confezione da 8 (giusta per tutto il periodo necessario) ha un costo di circa 30 euro. Leggermente più caro Milbemax®Cani.
In formulazione spot on (ovvero gocce da applicare localmente sulla cute dell’animale, alla base del collo) Stronghold (Selamectina) e Advocate® (Moxidectina): da usare anch’essi mensilmente. La Moxidectina si può trovare anche sotto forma di compresse orali nelGuardian®.
Questo farmaco è anche in soluzione iniettabile Guardian®SR. E’ la soluzione più recente e pratica visto che consta di un’unica iniezione (fatta dal veterinario) valevole per tutto l’anno.
In ulteriore alternativa, con applicazione a cadenza mensile anche le tavolette masticabili diIvermectina (Cardotek 30® e Cardotek 30®Plus).
Benefici ed effetti collaterali

Tutti questi prodotti vanno soministrati solo dopo la consulenza di un medico veterinario. Si tratta di medicinali e come sempre accade in questi casi possono avere effetti collaterali più o meno gravi. La maggior parte di loro è in uso anche per trattare altre forme parassitarie. Appartengono alla categoria defli antielmintici

La Sintomatologia:
La presenza di poche macrofilarie è ben tollerata dall’animale, differentemente infestazioni massive provocano alterazioni a carico di:

-Apparato circolatorio:
si può verificare una endoarterite proliferativa (infiammazione della tunica interna di un’arteria con fenomeni proliferativi) a carico dell’arteria polmonare (sede preferenziale delle macrofilarie). Ne consegue uno stato di ipertensione polmonare che porta ad una progressiva insufficienza cardiaca di destra con i seguenti segni clinici: abbattimento, ascite(versamento di liquido in cavità peritoneale) e lipotimia(svenimento).

-Apparato respiratorio:
Per le secrezioni di cataboliti da parte dei parassiti si verificano stati infiammatori a carico del polmone il cui segno clinico più caratteristico è la tosse.
Inoltre la presenza di Macrofilarie nelle camere cardiache destre può provocare la così detta “sindrome della vena cava” caratterizzata da emolisi intravasale spontanea che ostacola il ritorno venoso al cuore di destra.
Ancora le Microfilarie circolanti possono precipitare come immunocomplessi e dare danni renali.

Diagnosi:

Sintomatologia clinica:
i cani colpiti da filiarosi cardio-polmonare hanno un’età raramente inferiore ad un anno e di norma superiore a due anni. Sintomi rilevabili dal padrone e con visita clinica sono affaticamento, abbattimento, tosse e negli stadi più avanzati lipotimie sotto sforzo; ascite ed edemi degli arti nella fase terminale della malattia.

-Esame microscopico del sangue: evidenzia la presenza delle microfilarie circolanti (il prelievo deve essere effettuato preferibilmente al mattino o alla sera)
-Esame radiografico del torace
-Esame ecografico

Trattamento:
In primis si inizia una terapia contro gli esemplari adulti di Filarie con farmaci quali arsenicali, melarsomina e tiacetersamide. La melarsomina è preferibile perchè è il farmaco con minor tossicità. Tuttavia bisogna prestare molta attenzione perché la morte delle Macrofilarie può provocare tromboembolismo quindi si deve adottare una buona terapia collaterale.
Completata la terapia contro gli adulti si deve intraprendere una terapia contro le Microfilarie circolanti. I farmaci più usati sono: avermectine e milbemicina ossima.
Nel caso di sindrome della vena cava è consigliabile la rimozione chirurgica delle macrofilarie dall’atrio destro del cuore.

Profilassi:
Somministrazione mensile di avermectina o milbemicina ossima durante tutto il periodo di vita delle zanzare.

E l’uomo creò il Cane – Video

Bellissimo documentario della National Geographic incentrato sulla creazione del cane e la sua evoluzione insieme all’uomo. Da vedere!

Milano, nei cimiteri le ceneri degli animali saranno deposte accanto ai resti dei loro padroni

I recipienti con le ceneri degli animali d’affezione devono essere metallici o in materiale lapideo, stabilisce Palazzo Marino, completamente chiusi con coperchio inamovibile.

cimiteroSavona

Nei cimiteri di Milano sarà possibile ‘riposare’ con accanto le ceneri del proprio animale domestico. Il provvedimento è stato proposto dagli uffici comunali alla giunta, dopo una serie di verifiche tecniche, che ha dato il suo avvallo.

cani-cimitero“Visto che non sono stare riscontrate, nelle normative vigenti in materia, prescrizioni che impediscano la collocazione delle ceneri di animali d’affezione nella immediate vicinanze della sepoltura del padrone defunto – spiega Rosaria Iardino (Pd), presidente della commissone consiliare Benessere, che ha lavorato alla soluzione assieme ai tecnici – questa pratica è ora possibile anche a Milano”.

Non sarà però possibile collocare le ceneri dell’animale d’affezione all’interno dello spazio per il feretro. Quindi, per esempio, in caso di tomba su campo, il contenitore delle ceneri dell’animale potrà essere fissato al terreno sottostante, con accorgimenti che ne impediscano l’asportazione accidentale. O ancora, per le cellette ossario e il colombaro l’urna potrà essere fissata alla lapide di copertura.

“Voglio ringraziare l’assessore Franco D’Alfonso e i suoi uffici – conclude Iardino – per aver varato questo provvedimento, che avvicina ulteriormente Milano ai più importanti capoluoghi internazionali”.

fonte: Repubblica.it